È la cenerentola delle attività produttive. Lasciata spesso ai margini dell’informazione, anche economica. E però l’agricoltura resta il piedistallo, fragile, del nostro sviluppo di Chiara Zappa I contadini lo sapevano. La crisi alimentare, l’emergenza idrica, la devastazione ambientale riconducibili all’industrializzazione dell’agricoltura e all’affidamento totale del nutrimento nelle mani del mercato non li hanno sorpresi. I tre miliardi di agricoltori, braccianti, lavoratori rurali che ancora esistono sul Pianeta erano da tempo consapevoli del fatto che, se si spezzano gli equilibri che regolano il legame degli uomini con la terra, le conseguenze non possono che essere gravi. Loro sostenevano da millenni il valore della biodiversità, l’importanza di poter produrre ciò di cui si ha bisogno per sopravvivere e di farlo rispettando i ritmi della natura e le specificità dell’ambiente. Nessuno, però, li ha ascoltati. «I contadini sono stati talmente disprezzati e denigrati dalle opposte ideologie, che si è finito per non considerarli più attori rilevanti per le scelte che riguardano il nostro mondo. Eppure, essi hanno molte cose da dire». Silvia Pérez-Vitoria, economista, sociologa e documentarista, ha dedicato una vita intera ad ascoltare – appunto – quello che i contadini hanno da dire: dalla Francia (dove vive) al Messico, dagli Stati Uniti all’Eritrea, dalla Spagna alla Bolivia al Nicaragua. Proprio per aver «dato voce alle battaglie che i lavoratori della terra combattono ad ogni latitudine» l’autrice, che collabora con L’Ecologiste e in Italia ha pubblicato tra l’altro il libro Il ritorno dei contadini (Jaca Book), ha ricevuto il 34esimo premio Nonino, che le verrà consegnato sabato prossimo dalle mani di Edgar Morin.
Lei sostiene che a nessuno interessa ciò che pensano i contadini: perché? «Qualche tempo fa sono stata a Maputo per la conferenza internazionale di Via Campesina, un’organizzazione contadina globale che riunisce 200 milioni di membri in tutto il mondo: praticamente non c’erano giornalisti. D’altra parte, in tutte le sedi di discussione delle grandi emergenze globali si è sempre dato voce a 'esperti' che hanno proposto le loro soluzioni tecniche ed economiche, mentre le posizioni dei contadini non sono mai state prese in considerazione. Eppure, nel mondo i due terzi delle persone che soffrono la fame vivono in contesti rurali e dipendono dall’agricoltura. Mi sembra evidente che si tratta di un problema culturale».
Quali sono i modelli alternativi di sviluppo proposti dai contadini? «Organizzazioni come Via Campesina, così come i Sem terra del Brasile o le reti contadine dell’India, sostengono in primo luogo la sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli a produrre il proprio nutrimento, secondo il loro contesto culturale. Si tratta di qualcosa di molto diverso rispetto alla sbandierata sicurezza alimentare, che riguarda semplicemente l’accesso ai prodotti: se puoi comperare il cibo di cui hai bisogno, allora puoi considerarti sicuro. Ma, come purtroppo abbiamo sperimentato, non è sempre così. Dipendere massicciamente dalle importazioni è rischioso. Quindi, ciò che i contadini chiedono è rilocalizzare la produzione, in particolare degli alimentari».
Queste organizzazioni puntano molto sul sostegno ai piccoli produttori e ai saperi locali, per esempio sulle sementi: perché allora lei critica un modello come quello del commercio equo e solidale? «Il problema principale è che esso perpetra essenzialmente il paradigma della produzione per l’esportazione, e quindi non mette in discussione alla base il modello attuale. Io penso invece che sia ora di concentrarsi sul livello locale, nel Sud ma anche nel Nord del mondo. Nelle nostre società, infatti, le persone tendono a preferire i prodotti dell’agricoltura industriale perché costano poco, ma non si rendono conto di pagare il prezzo di questi cibi in un altro modo: in termini di devastazione ambientale e scarsità d’acqua, ma anche di disoccupazione e rischi per la propria salute. Ecco perché sostegno che ci vorrebbe un 'commercio equo di prossimità', che potesse anche sensibilizzare i cittadini – per esempio attraverso la vendita diretta dei prodotti da parte degli agricoltori – sull’importanza di questo tipo di produzione».
Gli attivisti contadini sostengono anche la necessità di sottrarre le politiche agricole dal Wto: perché? «La messa in concorrenza brutale di soggetti con produttività molto differenti, per esempio un produttore statunitense e uno africano, ha effetti molto violenti. Le singole agricolture devono essere protette attraverso regole adeguate: questo è l’unico modo per far sopravvivere produzioni locali».
Perché secondo lei la questione contadina ha a che fare con l’intera società globale?«Perché l’agricoltura è coinvolta in tutte le sfide principali del nostro tempo: l’emergenza ambientale e idrica, i cambiamenti climatici, l’alimentazione, la sanità ma anche il tipo di relazioni su cui vogliamo basare le nostre società. La cultura contadina è basata sul concetto di equilibrio e non sulla filosofia del 'sempre di più': produrre sempre di più, consumare sempre di più e così via. E quella dell’equilibrio è una lezione che tutti noi dovremmo tornare a imparare».