Bisognerà partire dalla sognante Cefalù, dove, nel museo Mandralisca, turba non poco quell’enigmatica immagine che è il
Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, che avrebbe poi ispirato a Vincenzo Consolo il suo romanzo più bello,
Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). In direzione di Messina, sulla spesso accidentata strada che muove da Palermo: per incontrare, quasi a metà percorso, prima Capo d’Orlando, dove viveva il barone Lucio Piccolo, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e poi, a pochi chilometri, Sant’Agata di Militello, in cui, il 18 febbraio del 1933, Consolo nasceva, quel paese sul mare sotto i Nebrodi, con cui ha intrattenuto, per tutta la vita, un rapporto difficile, conflittuale, di quasi rabbioso amore. Il paese, aggiungo, in cui aveva lasciato l’amatissima famiglia, i fratelli e le sorelle per andare a lavorare a Milano in Rai: e dove al rintocco della prima estate ritornava, anche dopo aver messo su casa nella siracusana Ortigia. È qui, su questo tratto di costa siciliana, che s’è consumato uno dei capitoli più suggestivi, più insoliti, della nostra storia letteraria recente. Dicevo dei monti Nebrodi, che sono di quella Sicilia che Vittorini chiamava "lombarda". E Consolo, che in uno di quei paesi, San Fratello, ha ambientato il suo romanzo d’esordio,
La ferita dell’aprile (1963), di quella singolare Lombardia del Sud, portava un che nello sguardo intenso e azzurro, sprizzante d’energia, così bello di giovinezza nel volto sempre uguale, mentre gli anni passavano, così fisiognomicamente figlio della pittura di Antonello, che era diventato– lo ripetevo spesso a Vincenzo – come l’icona di se stesso.Ho accennato a Lucio Piccolo di Calanovella, poeta malioso e misteriosofico, se non alchemico, che viveva nella villa avita coi fratelli Casimiro e Agata Giovanna, tutti insieme fuggiti dalla fatua mondanità della Palermo nobiliare, per coltivare lì, in beata solitudine, le loro ossessioni e la loro dolcissima follia. Come quel cimitero dei cani che ancora si può visitare, coi nomi degli animali imperituramente incisi sulle lapidi e i fiori sempre freschi sulle tombe: Alì, Pascià, Mamoud, Aladino, l’amatissimo Puck che Lucio teneva sempre sulle ginocchia, e poi Crab di Tomasi, morto lì in uno dei lunghi soggiorni dell’autore del
Gattopardo, capolavoro che la leggenda vuole nato dall’invidia per il cugino poeta dopo che Montale, scoprendolo, l’aveva fatto pubblicare e poi premiare a San Pellegrino. Già, la dolcissima follia dei Piccolo, tra la villa degli avi e il mare su cui s’affaccia, che ancora oggi, con le Eolie in lontananza, è un mare circesco e di sirene: non per niente lo stralunato Casimiro era convinto di parlare con gli spiriti, anche quelli dei cani. Casimiro: grande esperto di fotografia e stregato pittore di acquarelli, che dentro quella luce di fiaba, da munchiano figlio di Bosch e Bruegel, sapeva trasfondere, sul volto di fate, elfi, folletti e gnomi, qualcosa della metafisica angoscia, della disperata incomunicabilità che fu del suo secolo.Possiamo immaginarcelo, il giovanissimo Consolo, che lasciava la piccolo-borghese Sant’Agata di Militello delle prime speculazioni edilizie, per correre all’aristocratica e irredimibile Villa Piccolo, a incantarsi delle lunghe, anacronistiche, misteriose, conversazioni col barone: lui, Consolo, vittorinianamente già così sensibile al mondo offeso dello sfruttamento di classe e, verghianamente, alle atroci sopraffazioni della Storia. Veniva dal Vittorini delle
Città del mondo (1967): e, meglio di Vittorini, avrebbe saputo tradurre una scommessa civile in un azzardo della lingua addirittura prosodico. E restò sempre vittoriniano per quella forte tensione verso una parola-giustizia, che volesse restare agonistica, sganciata da ogni facile linguaggio della comunicazione, prossima, piuttosto, agli ardui approdi della poesia. Ecco perché resistette alle tentazioni alcinesche e mediterranee dei simboli di Piccolo con gli antidoti di una razionalità che credette di trovare nel presunto illuminismo di quell’altro suo grande maestro: Leonardo Sciascia da Racalmuto. Consolo è partito da qui, razionalista e barocco, con quella lingua che s’inciela nella tradizione o si sprofonda nel ventre del dialetto, per smascherare, libro dopo libro, le follie del Potere: benissimo in
Nottetempo, casa per casa (1992), con cui vinse il Premio Strega, per proseguire, poi, con
L’olivo e l’olivastro (1994) e
Lo spasimo di Palermo (1998), sino al sofferto e assordante silenzio degli ultimi quindici anni, che fu il suo modo di immolarsi alle ragioni della poesia contro quelle, violentissime, dell’omologazione. Il risultato di quei libri fu però stupefacente, come il portato d’una singolarissima alleanza che ognuno avrebbe trovato implausibile: quella tra malìa e ragione. Fu come se quei simboli sigillati in se stessi, che Lucio Piccolo ci aveva consegnato nei suoi
Canti barocchi, fossero finalmente razionalizzati e compresi, dispiegati democraticamente dal canto in prosa del borghese Consolo.