Per quell’essere spirituale e abitante che è l’uomo, il pane non è mai solo pane. L’uomo non è chiuso (all’interno del mondo dei propri bisogni) ma aperto (da un desiderio che non è un bisogno): ecco una verità che a ben vedere nessuno ha mai messo in dubbio e di cui oggi, nella nostra società dei consumi, i principali paladini non sono i filosofi o i teologi, ma i pubblicitari e gli esperti di marketing. Gli uomini, abitati da un desiderio che non è un bisogno, non vivono di solo pane ma anche di ricordi, sogni, capricci, illusioni, paure, fantasie, fantasmi. L’attualità celebra con insistenza l’infantile primato della fase orale: gli chef sono chiamati maestri, í loro piatti sono definiti opere, le loro performance sono seguite in tv da milioni di persone con un’attenzione in cui non è difficile riconoscere i tratti della devozione. Come negare, dunque, il vincolo essenziale che lega gli uomini allo spirito? E in effetti, nessuno lo ha mai negato; il problema è che moltissimi, purtroppo, sono talmente convinti di saperci fare al riguardo da non accorgersi, mentre parlano dello spirito, di essere in verità caduti vittime di spiriti e spiritelli, di “retro-mondi” – il “retro-mondo” non è “al di là del mondo” essendone piuttosto, come insegna Nietzsche, una risentita caricatura – affollati di fantasmi e allucinazioni.Ma allora che fare, come comportarsi con lo spirito? Mi limito qui a indicare solo due tra le strade più seguite. L’uomo consuma questo e quello perché per vivere ha bisogno di questo e di quello; eppure è facile accorgersi come egli consumi anche molto di più e molto d’altro rispetto a ciò di cui avrebbe strettamente bisogno per vivere. Questo innegabile eccedere non è per nulla paradossale e, se mai lo fosse, lo sarebbe proprio perché è la stessa esperienza dell’uomo a esserlo; in effetti, l’uomo consuma per vivere, ma per vivere come uomo e non come semplice vivente. All’interno dell’esperienza umana il consumo ha a che fare più con la mancanza di cui parla il desiderio che non l’assenza di cui parla il bisogno. Ora, come si comporta l’uomo di fronte a tale mancanza? Per lo più e con insistenza egli tenta (sogna e si illude) di riconvertire la logica del desiderio (dove non sa mai di che cosa manca) in quella del bisogno (dove sa sempre ciò che può colmare il suo vuoto); o in altre parole: per lo più e con insistenza egli tenta (sogna e si illude) di “trattare” la mancanza come se fosse un vuoto che può essere colmato. Il consumo, quando è vissuto come una risposta al desiderio, non può che assumere la forma compulsiva dell’«ancora» e del «sempre di più». Una prima strada imboccata dall’uomo è dunque quella caratterizzata dell’accumulazione illimitata, dall’eccesso e di conseguenza dallo spreco. Una seconda strada s’inoltra nello spettacolare mondo della smaterializzazione estetizzante. Le Sacre Scritture, a proposito del pane e dello spirito, dei rapporti tra il pane e lo spirito e viceversa, avanzano altre ipotesi e propongono di seguire altre strade. Lo spirito, precisa il Logos biblico, più che “nutrito”, deve essere in verità «coltivato e custodito» (Gn 2,15); anch’esso infatti, d’altra parte come tutto ciò che è stato creato, viene consegnato da Dio all’uomo non come una «semplice presenza», direbbe Heidegger, non come una cosa o un oggetto in sé compiuto e definito, ma come un dono, come una promessa, come un segno, per l’appunto come un «già» che tuttavia attende sempre di essere «ancora» liberamente coltivato-e-custodito. Il Dio biblico non toglie la scena all’uomo, non gli si impone e soprattutto non lo tratta come un semplice adoratore o come un suddito; Egli attende la risposta di un collaboratore libero e responsabile, responsabile perché libero. Ora, un dono non può essere solo ricevuto, ma deve essere anche accolto; una promessa non può essere solo intesa, ma deve essere anche creduta, così come un segno deve essere anche letto, cioè riconosciuto e interpretato: coltivare-e-custodire significa dunque accogliere-credere-interpretare, e questo è un gesto che non può essere compiuto senza l’esercizio, drammatico e precario ma proprio per questo anche esaltante, della libertà. Non si tratta dunque di opporre il pane allo spirito ma neppure lo spirito al pane; bisogna piuttosto riconoscere e vivere il pane come segno dello spirito e lo spirito come urgenza della condivisione del pane. L’uomo è l’aperto, talmente aperto da riuscire ad arrivare fino alla bocca dell’altro. Da questo punto di vista, la carità è forse la forma antropologicamente più aperta di apertura, forse essa è il solo luogo all’interno del quale lo stesso pane, nella mano che lo porta alla bocca dell’altro, si trova trasformato in spirito. Forse l’uomo è un essere spirituale proprio perché sa rispondere al bisogno materiale dell’altro uomo. Forse la spiritualità di quell’essere spirituale che è l’uomo rivela il suo ultimo volto proprio nel pane spezzato e condiviso con l’altro. Forse la carità è l’umanità stessa dell’umano.