Torino Spiritualità. Joshua Cohen: «Ebrei negli Usa tra dolore e commedia»
Lo scrittore Joshua Cohen
Vincitore del Premio Pulitzer 2022 come miglior opera di narrativa, il nuovo romanzo dello scrittore statunitense Joshua Cohen ( I Netanyahu, Codice edizioni, pagine 272, euro 20,00) parte dall’arrivo in America dello storico revisionista Ben-Zion Netanyahu, padre di Benjamin, futuro primo ministro dello Stato d’Israele. Muovendo da un fatto storico realmente accaduto, Cohen riflette sugli interrogativi che segnano l’identità ebraica, ma anche sul confine tra verità e finzione e sul rapporto con la storia, che talvolta porta a un sentimento di sfiducia per il fatto di essere scritta dai vincitori. Lo scrittore, in Italia per un tour di presentazione, parlerà del libro domani al Circolo dei Lettori nell’ambito di Torino Spiritualità. Per raccontare questa storia è però necessario fare un passo indietro, al sottotitolo del libro: «Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre». L’episodio risale al 1959, quando Ruben Blum, professore di storia, viene incaricato di fare da guida per un fine settimana a uno studioso israeliano che un’università americana sta valutando di assumere: Ben-Zion Netanyahu, appunto. «Il libro – spiega Cohen – è liberamente ispirato a una storia vera che mi ha raccontato il critico letterario Harold Bloom». Ruben Blum, il professore di storia, è una sorta di controfigura di Harold, che «è stato uno dei critici più importanti del ventesimo secolo. La sua ricetta per essere un bravo scrittore e contribuire in modo autentico alla cultura era quella di mettersi nella posizione di trovare l’errore nella tradizione, partendo dall’idea che ogni generazione arrivi troppo tardi su quelle precedenti; con l’aumentare delle generazioni, il passato con cui confrontarsi diventa sempre più ingombrante e complesso da affrontare. Di tutti i racconti di Bloom, questo di cui narro nel libro fu quello che mi colpì di più, forse perché è stato uno degli ultimi che abbia condiviso con me. In seguito alla sua morte, nel 2019, ho iniziato a scriverne, e facendolo mi sono ritrovato a inventare un certo numero di dettagli che lui aveva tralasciato e a romanzarne qualche altro». Non a caso un altro dei punti toccati da Cohen nel romanzo è in qualche modo il rapporto tra realtà e finzione, il cui confine può essere sottilissimo e talvolta aprire anche ad altre riflessioni: «La storia che mi interessava raccontare – continua Cohen – era quella della famiglia Netanyahu, ma volevo raccontare anche qualcosa sulla politica contemporanea e sul significato di essere lasciati fuori dalla storia. Da una parte c’è il tentativo di descrivere un aneddoto che mi era stato raccontato, dall’altro quello di meditare su due concezioni diverse della storia, una per cui la storia esiste e l’altra per cui non esiste. Trovavo interessante la figura di Netanyahu, storico di mestiere, e interessante meditare sulla concezione di tempo circolare e di tempo nella ripetizione, che rafforza l’idea di fiducia nella tradizione e nel senso di comunità, ma insieme anche la ricorsività di esperienze di sofferenza, negative, con una declinazione di pessimismo e sfiducia che si sviluppa quasi in ogni Paese e quasi in ogni generazione. Quello che volevo fare era mettere in scena queste due concezioni diverse del tempo, e poi volevo che il libro fosse una commedia». I Netanyahu ha in effetti tratti ironici da commedia, ma è anche, insieme, una lezione di storia, una conferenza accademica, una riflessione sui conflitti culturali e religiosi degli ebrei americani e sulle vulnerabilità dei discorsi identitari. Cohen si chiede cosa significhi essere ebrei, cosa essere americani, come si coltivi l’identità e come vivere l’ebraismo in America: «Ho avuto un’educazione più religiosa rispetto ad alcuni conoscenti che vivono nello Stato di Israele – conclude –; questo perché nel momento in cui si ottiene una forma di autonomia politica, talvolta avviene un passaggio dalla religione allo Stato».