Il regista. Cohen: «L'accoglienza si fa in famiglia»
Benoit Cohen con la madre Marie-France
All’inizio Benoit Cohen non riusciva a crederci: «Ma come, mia madre mi telefona da una parte all’altra dell’Atlantico per qualsiasi decisione debba prendere, non importa quanto piccola, e poi fa un passo del genere senza neppure interpellarmi?». Accogliere un rifugiato, di questo si tratta. E non per modo di dire, magari con qualche visita di cortesia nell’istituto in cui il ragazzo è domiciliato. No, accoglierlo veramente in casa propria, dandogli un letto e una stanza, condividendo con lui i pasti e la conversazione. Difficile a dirsi, figuriamoci a farsi. Ma attenzione, perché la storia è ancora più complessa di come potrebbe sembrare. Lo fanno intuire i nomi dei protagonisti, che in qualche modo compaiono tutti insieme sulla copertina del libro che Cohen ha scritto per raccontare questa vicenda di eccezionale normalità: Mohammad, mia madre e io (traduzione di Gabriella Maione; Sem, pagine 250, euro 18,00), appunto. Un giovane afghano di minoranza hazara, un’imprenditrice quasi a riposo che risponde al meraviglioso appellativo di Marie-France e l’autore, un cineasta francese trasferitosi a Brooklyn poco prima dell’inattesa vittoria elettorale di Donald Trump nel 2016. Migrante anche lui, in un certo senso, preso alla sprovvista dal ribaltamento di prospettive che la retorica del “Make America Great Again” impone. Per inciso, Benoit è un nome tipicamente cattolico e Cohen un cognome ebraico non meno caratteristico: «I miei genitori vengono da tradizioni religiose differenti – spiega – ma questo per noi non è mai stato un problema».
Mohammad invece sì, almeno all’inizio?
No, non direi così. Di sicuro però la convinzione mia e dei miei fratelli era che prima o poi la mamma ci avrebbe ripensato. Dalla morte di mio padre Bernard nel 2010 viveva da sola, avevamo immaginato che volesse solo un po’ di compagnia. Proprio per questo eravamo preoccupati. Per lei, certamente, ma anche per Mohammad, che temevamo potesse rimanere deluso dall’esperienza.
E invece vi sbagliavate.
Sì, perché Mohammad è arrivato da mia madre nel 2017, all’età di 23 anni, e in sostanza non se ne è mai andato. Ora è uno studente di Sciences Po, una delle università più prestigiose di tutta la Francia. Era il suo sogno, sono felice che sia riuscito a realizzarlo.
Per questo ha voluto raccontare la sua storia?
In realtà era una grande storia già prima di questa svolta. Poco più che ragazzino, Mohammad, che di cognome fa Ewaz, aveva collaborato con l’esercito francese in Afghanistan, salvo trovarsi del tutto privo di protezione quando le truppe avevano lasciato il Paese. Aveva comunque trovato modo di continuare a lavorare, aveva perfezionato il suo inglese, aveva fortunosamente raggiunto l’Europa pieno di speranze e, prima di essere accolto da mia madre, era stato parcheggiato in una struttura per persone con disagio psichico. La sua salute ne aveva risentito. La prima volta che ci siamo incontrati era tormentato da emicranie terribili.
Eppure ce l’ha fatta.
Perché ha ricevuto il sostegno di Wintegreat, il programma internazionale che si fa carico dei progetti professionali dei rifugiati. Ma anche perché è stato trattato come uno di famiglia, credo. E perché mia madre è stata capace di vincere la paura che sempre ci assale davanti allo straniero, all’estraneo. È un sentimento istintivo, del quale dobbiamo prendere atto se vogliamo imparare a vincerlo, a superarlo, a sostituirlo con la solidarietà.
Posso fare un’obiezione?
Aspetti, penso di poterla anticipare: mia madre è una donna benestante, vive in una magnifica casa nel centro di Parigi, lo spazio non le manca e neppure le mancano le disponibilità economiche, le relazioni sociali. Ho indovinato?
Sinceramente sì.
Il lavoro di Singa, l’associazione alla quale si è rivolta mia madre, e di altre realtà che provvedono alla sistemazione dei rifugiati in case private dimostra semmai il contrario. Per accogliere una persona può bastare un divano. Una mia amica scrittrice, per esempio, ha deciso di rinunciare al piccolo studio in cui lavorava pur di aderire all’iniziativa. Non è questione di soldi, ma di mentalità.
E l’elemento generazionale? Quanto conta in questa vicenda?
Più di quanto si potrebbe sospettare. I ragazzi e le ragazze dell’età di Mohammad sono i primi a vivere in una condizione di connessione costante con il resto del mondo. Basta osservare le immagini degli sbarchi nel Mediterraneo. Non importa quanto arrivino malconci e malvestiti, tutti stringono tra le mani il loro smartphone, che permette di tenersi in contatto con i propri cari, di informarsi, di cercare una via d’uscita. Come ha fatto Mohammad.
Sembra una storia a lieto fine: possiamo accontentarci?
No, direi di no. Oggi Mohammad è una persona felice, che studia con passione e interesse, eppure gli è stato negato il visto per venirmi a trovare a New York. E se gli Usa restano un Paese straordinariamente contraddittorio, nel quale si incontrano sia l’apertura fiduciosa verso l’altro sia la chiusura più retriva e indiscriminata, anche l’Europa purtroppo non è da meno. Le notizie che arrivano da diversi Paesi, Italia compresa, sono molto preoccupanti. La stessa Francia sta sperimentando da tempo un’ondata di intolleranza razzista, nella quale il sospetto nei confronti della popolazione musulmana finisce per saldarsi con rigurgiti di antisemitismo sempre più violenti ed evidenti. Lo dico con sofferenza, ma ultimamente, quando ritorno a Parigi, mi rendo conto che nella Francia di oggi essere ebreo può costituire un problema. Non mi era mai successo prima. È una sensazione spiacevole e molto, davvero molto inquietante.