Bisogna confrontare la carta geografica europea del 1919 con quella del 1914 per comprendere quale sconvolgimento fu la Prima guerra mondiale. Lo spazio al centro del continente, dove prima troneggiavano i due grandi imperi, tedesco e austro-ungarico, dopo la guerra fu occupato da una decina di nuovi stati, creati dal nulla a Parigi, al tavolo della conferenza di pace. Per alcuni, come la Polonia, era una rinascita, lungamente desiderata. Per altri, come l’Ungheria, era un intollerabile declassamento territoriale e politico. Per altri ancora, come la Cecoslovacchia o il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, un inedito e rischioso esperimento di coabitazione. Come ciò non bastasse, l’area balcanica fu ulteriormente destabilizzata premiando la Romania, che si era schierata con i vincitori (acquisì la Transilvania, la Bucovina e la Bessarabia e raddoppiò il territorio prebellico) e penalizzando la Bulgaria, che si era schierata con i perdenti. Nel generale sconvolgimento, dominato dalla questione tedesca, le classi dirigenti europee probabilmente non si resero conto della radicalità di quanto era stato compiuto in questa regione, la Mitteleuropa, da sempre la frontiera del continente verso est e verso sud. La Santa Sede, invece, fu molto meno distratta e ne comprese subito l’importanza. Qui, infatti, concentrò molte delle sue energie, nella consapevolezza che la scomparsa del vecchio sistema della Chiesa di Stato austriaca apriva nuovi scenari e rendeva finalmente possibile a Roma rapportarsi direttamente con i fedeli dei nuovi Paesi postbellici, dove erano presenti cattolici tanto di rito latino quanto di rito orientale. Non è un caso che tre futuri pontefici abbiano fatto qui il loro apprendistato: Pio XI, visitatore apostolico e poi nunzio in Polonia e Lituania dal 1918 al 1921, Giovanni XXIII delegato apostolico in Bulgaria dal 1924 al 1935, Paolo VI, che nel 1923 fece alla nunziatura di Varsavia la sua prima (e unica) esperienza diplomatica fuori d’Italia. Ora un recente volume, pubblicato in Croazia in lingua italiana, ci ragguaglia circa le relazioni fra la sede pontificia e l’area degli slavi del sud, che dal 1929 prenderà il nome di Jugoslavia (Massimiliano Valente,
Diplomazia pontificia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni 1918-1929, edizione a cura della Facoltà di Filosofia dell’Università di Spalato). Anche qui, come in tutti i territori ex imperiali, la diplomazia vaticana si trovò di fronte a un mondo sostanzialmente sconosciuto, improvvisamente privato dell’ombrello della pax austriaca. Al di là dell’Adriatico non c’erano più gli arcigni, ma ben noti funzionari asburgici. Adesso c’era il fragile Regno dei Serbi Croati e Sloveni, uno Stato che nel 1929 crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni, dopo l’assassinio di alcuni deputati avvenuto all’interno del Parlamento, trasformandosi nel Regno di Jugoslavia sotto la dittatura del re Alessandro Karadordevic.I trattati di pace avevano sconvolto la geografia religiosa della regione. Erano stati distrutti i confini di molte diocesi, rimaste per metà in Ungheria e per metà confluite nel nuovo Stato. Era stata azzerata l’autorità dei vescovi, creati dallo scomparso sistema asburgico e ora rifiutati da tutti. Tra dimissioni, ritiri, divieti governativi, ribellioni del clero o dei fedeli, dissidi fra regolari e secolari, ancora nel 1922 più della metà delle sedi era vacante. Si aggiunga la difficoltà di far capire che gli antichi diritti asburgici in materia di nomine vescovili non erano passati al nuovo governo ma erano da considerarsi estinti definitivamente. In questa terra ora diventata iugoslava, insomma, agli osservatori vaticani si presentava un cattolicesimo confuso, ribelle, fiaccato dalla tragedia della guerra, dilaniato dalle divisioni nazionali, con un clero debole sia moralmente che culturalmente, abituato da sempre ad interpretarsi come ceto politico più che come presenza pastorale, molto attivo nei partiti e negli organi rappresentativi, ma poco fra la gente.Come riuscì a districarsi fra tante difficoltà la Santa Sede? Massimiliano Valente ha esaminato le carte della nunziatura e della Segreteria di Stato, che forniscono un esempio concreto del modus operandi della diplomazia vaticana in quegli anni difficili, sotto la guida energica del cardinal Gasparri. I punti fermi furono i seguenti: riconoscimento immediato dei nuovi Stati (a Roma ci si rese subito conto dell’irreversibilità dei mutamenti postbellici); nessuna ristrutturazione dei territori diocesani prima della fissazione definitiva dei nuovi confini; grande attenzione nella scelta dei vescovi, destinati a essere il perno del nuovo cattolicesimo iugoslavo. Ma il centro della questione era proprio questo. Come trovare vescovi capaci di accontentare tutti in territori in cui il conflitto delle nazionalità stava diventando lotta di tutti contro tutti? Da queste carte apprendiamo che anche Celso Costantini, nominato amministratore apostolico di Fiume nel 1920, nel pieno dell’avventura dannunziana, dovette affrontare innumerevoli ostacoli, in primis la dichiarata ostilità di Belgrado, e superò la prova solo perché tenne un profilo bassissimo. Decisivo divenne perciò il ruolo dei nunzi apostolici, personaggi sui quali gravava quasi interamente il compito di esplorare la situazione in loco, sul piano sia politico sia religioso, e riferirne Roma perché questa potesse assumere le decisioni migliori. Il momento veramente critico fu quello dell’immediato dopoguerra, quando tutto era crollato e si dovette cominciare a ricostruire partendo quasi dal nulla. In quella fase fu decisivo l’operato fermo e deciso della Curia, guidata con mano sicura da Gasparri e da Benedetto XV. Anche da questo libro di Valente, insomma, il breve pontificato di Benedetto XV, finora studiato in rapporto agli anni di guerra più che a quelli del dopoguerra, emerge come un momento decisivo nella storia della Chiesa novecentesca.