Agorà

LA CIVILÀ DELL'AUTO. Batte in testa il motore del XX secolo

Roberto I. Zanini giovedì 16 febbraio 2012
​«Il vero mito del XX secolo è stato l’automobile». Un mito tale da condizionare una civiltà, da costruire un modello industriale, un modello urbano e di convivenza civile. Un mito che è cresciuto incontrastato perché, almeno per quel che riguarda l’Italia, in un secolo fortemente segnato dalle ideologie, «è stato capace di mettere tutti d’accordo, tanto la sinistra quanto la destra e il centro». Valerio Castronovo, docente di storia contemporanea all’Università di Torino, studia da sempre gli influssi della produzione industriale, in particolare di quella automobilistica, sugli assetti dell’Occidente, in particolare del nostro Paese. Sull’idea dell’auto come mito principe del ’900, capace di funzionare sia a destra che a sinistra insiste ripetutamente.Vuole dire che l’automobile è stato l’unico argomento capace di mettere d’accordo comunisti, democristiani e la destra in tutte le sue accezioni?«E lo ha fatto fin dall’inizio del secolo, cioè da quando Agnelli nel 1906 si reca per la prima volta da Ford a Detroit e ci ritorna due anni dopo per vedere all’opera la prima linea di montaggio».Questo sta a significare che il mito dell’automobile nasce col mito dell’America.«L’America è il punto di riferimento di tutta l’industria automobilistica e nel ’900 l’automobile è il riferimento dell’industria mondiale. Negli anni ’20 Agnelli insisteva sul concetto che "bisogna fare come Ford". Nel ’39 la fabbrica di Mirafiori viene costruita sul nuovo modello americano. E nel ’38 la Fiat poteva celebrare l’obiettivo delle 50 mila automobili l’anno, anche se Ford ne costruiva già più di un milione. Solo che ne esportava due terzi, perché erano fatte bene e la domanda interna non era sufficiente. Un autentico successo per un Paese che all’epoca esportava soprattutto manodopera».Dove nasce il mito per la sinistra?«Dal fatto che, se è vero che la fabbrica delle automobile è del padrone, è vero anche che con gli operai delle automobili nasce una intera classe di operai specializzati, capaci di gestire la tecnologia. Una sorta di élite, estesa, della classe operaia. La fabbrica di automobili diventa un mito comunista già negli anni ’20, quando a capo della Fiom c’era Bruno Buozzi. È in quest’ambito, del resto, che nascono le grandi occupazioni delle fabbriche accompagnate dall’idea dell’autogestione, cioè l’operaio specializzato che gestisce la produzione».Questo ha portato a una sorta di riguardo particolare della sinistra nei confronti dell’industria automobilistica?«Nei fatti quando fra il 1946 e il ’47 viene chiesto con insistenza a Togliatti di spingere per nazionalizzare la produzione di auto, il leader comunista dice di no, perché sono altre le industrie di pubblica utilità da nazionalizzare».E il mito di destra?«Si lega a grandi personaggi di inizio secolo come D’Annunzio e Marinetti. L’automobile diventa l’emblema del mito futurista della velocità. Per questi intellettuali l’automobile rappresenta il vorticoso avanzare della modernità, così come il treno lo era per l’élite culturale di fine ’800. Considerando poi che siamo in un’epoca in cui a poter comprare automobili sono solo i ricchi, ecco che la velocità si associa al concetto di raffinatezza. E la pubblicità diventa un emblema di questo connubio».È in quest’epoca che nasce il binomio «donne e motori»...«E si moltiplicano i manifesti e le inserzioni sulle riviste in cui la raffinatezza della linea automobilistica è affiancata alla silhouette di donne molto belle ed eleganti».Cosa c’entrano l’eleganza e la velocità col comunismo?«Niente. Ma la forza dell’industria automobilistica è stata proprio quella di soddisfare fin dal principio il padrone, la borghesia e la classe operaia».Poi l’automobile diventa l’emblema del boom economico e l’operaio può sognare la scalata sociale.«Quando nel 1955 arriva la 600 e nel ’57 la 500 è il modo di concepire il mondo che cambia. Per spostarsi prima si usavano il tram, il treno, la corriera, la bicicletta. La 600 è libertà di movimento alla portata di tutti. La pubblicità si adegua. Le famiglie diventano il suo obiettivo. E in 600 le famiglie si spostano per la gita fuori porta portandosi dietro di tutto, quasi la macchina fosse come il guscio per la lumaca. E tutto questo avviene perché in contemporanea si importa dall’America il sistema di pagamento rateale».Fin qui è l’idillio. Poi però cominciano i problemi.«Il primo grande problema legato alle auto è lo choc petrolifero del 1973, con le domeniche a piedi. Crisi che si ripete nel ’79-’80. Poi la nuova crescita economica riparte dalle automobili. Mentre in America la nuova rivoluzione industriale è segnata dall’elettronica, dalla Silicon Valley e dall’affermarsi dell’ecologismo, da noi la macchina diventa il vero <+corsivo_bandiera>status symbol<+tondo_bandiera>, sempre più grande, sempre più veloce, sempre più costosa. I modelli di riferimento sono due automobili e la casa, anch’essa acquistata a rate».Intanto in America le città intasate e l’ecologismo mettono in crisi il modello strada-automobile.«Da noi però la filosofia ecologica stenta a mettere radici. L’individualismo sfrenato, lo scarso senso civico e del bene comune hanno portato negli ultimi anni alla diffusione senza senso di macchine sempre più grandi anche se le famiglie sono sempre più piccole. C’è desiderio di apparire, ma forse anche una certa arroganza, non saprei...».E allora, come si cambia?«Visto che per ora delle macchine non si può fare a meno, la soluzione immediata è che vengano costruite più piccole e capaci di minori consumi. L’obiettivo seguente è l’auto elettrica. Direi, anzi, che ci sono segnali per ritenere che la macchina elettrica e le energie rinnovabili saranno gli assi portanti della terza rivoluzione industriale. Necessarie quanto l’emancipazione dal petrolio, sempre più richiesto dai Paesi emergenti, col risultato che Cina e India stanno trasformando l’Africa in terra di conquista, perché sono affamate di combustibili fossili e di prodotti agricoli».Due enormi problemi che si sommano.«E che fanno comprendere come il cambiamento di strategie economiche e industriali sia diventato più che urgente».