Amin è seduto su una sedia, sul corso principale della città vecchia di Hebron. Placido. Immobile. Un uomo di cinquant’anni, dalle spalle larghe. Sopra di lui c’è quel che resta del secondo piano della sua bottega, rovinata dall’umidità e dalle liti con i vicini ebrei. Tra le mani ha un ricordo del passato, un trofeo del suo dolore personale: una fotografia che risale alla Seconda Intifada. L’immagine di quel che restò di suo figlio, morto nella guerriglia urbana. Il suo corpo trascinato da due soldati israeliani. Amin non dimentica ma non imbraccia fucili, in questa terra contesa. Lo dice senza lacrime e senza eccessiva fierezza. Non ha fatto la stessa scelta di chi, il 31 agosto scorso, ha freddato una famiglia di coloni che viaggiavano sulla stessa auto. Tra loro anche una donna incinta. Combattenti che non dimenticano. L’episodio è stato rivendicato dalle brigate al-Aqsa alla vigilia dei colloqui diretti israelo-palestinesi a Washington. Ma proprio qui, a Hebron, nel cuore della Cisgiordania, ci si rende conto perché la pace è così difficile e quante cose ha da insegnare la storia, cose che gli uomini non ascoltano. Dal 1929, quando i nazionalisti arabi scatenarono una rivolta, assassinando gli ebrei residenti nella cittadina, i contrasti tra palestinesi e coloni non si sono fermati. L’insediamento di Kiryat Arba, costruito dopo il 1967 per ospitare gli ebrei, in base alla ripartizione successiva alla Guerra dei Sei Giorni, non bastò ai coloni che occupano alcuni edifici della città vecchia. La
Knesset appoggiò questa azione illegale in silenzio. «Oggi la città è militarizzata. Per ogni colono ebreo ultraortodosso di Hebron ci sono almeno quattro militari appostati sui tetti delle case o agli angoli delle strade, con la consegna di proteggerlo». Adel Yahia, archeologo, insegna storia orale nelle scuole di Ramallah; qui porta i visitatori che vogliono rendersi conto di persona che cosa sia diventato uno dei luoghi più caldi della Cisgiordania. «Ma ci sono scontri anche tra coloni e soldati, perché alcuni ultraortodossi continuano ad occupare edifici assegnati ai palestinesi», ci dice. In compenso, la città vecchia è sempre divisa in due verticalmente, specchio di una incomprensione secolare. Ebrei e palestinesi sono separati da una rete stesa tra i primi e i secondi piani, tra le botteghe e le abitazioni superiori. E chi sta sopra (i coloni ebraici) la utilizza come pattumiera. L’orizzonte di chi dal basso guarda verso l’alto è sconfortante: sacchi di spazzatura, detriti, sedie di plastica penzolano sopra le nostre teste, trattenute dalla rete, come spade di Damocle di una inospitale modernità. Se Hebron è la storia di questa separazione, il simbolo contemporaneo di un dialogo che sembra non esserci, nonostante le speranze, è Qalqilya: la città dagli orizzonti murati. Siamo a 40 chilometri a ovest di Hebron, dopo gli insediamenti ebraici di Shiloh e a un passo dalla
Green Line, il muro che divide la Cisgiordania da Israele. L’accesso a questo luogo di vivaci scambi commerciali è uno solo. La città è un lungo imbuto da cui si entra facendo il conto dei negozietti di lavatrici e televisori e da cui non si esce se non dall’arteria viaria da cui si è entrati, dopo avere superato un
check point, percorso prima la Bypass Road (strada a doppio senso, sia per israeliani che per palestinesi), e poi la strada statale, contrassegnata con il simbolo A (cioè per palestinesi e con posti di blocco di polizia).Samir Dwa-shah è il sindaco di Qalqilya, località di poco più di 38mila abitanti. Alto, ieratico, sa pesare le parole. Ci accoglie con il drappello degli assessori nei giardinetti pubblici della città, donati alla municipalità da
Save the children e da Bill Gates. Qui c’è un piccolo zoo. Le famiglie stazionano tranquille. Dwa-shah non si lascia scappare l’occasione per denunciare lo stato di isolamento, «apartheid», lo chiama, in cui versa la sua popolazione: «Questa terra è fertilissima e non si fa difficoltà a trovare lavoro come braccianti o a guadagnare dal raccolto. Ma, dalla costruzione del muro in poi, ci hanno tagliato anche questa possibilità». Dando per scontato il danno gravissimo arrecato alle famiglie le cui case si trovano sul confine, e alla difficoltà di incontrare chi, se parente o amico, vive oltre il muro, si aggiungono anche dei dati in più: «Le terre coltivabili e già coltivate sono tutte dall’altra parte del muro. Così, i prodotti di una terra sempre lavorata da noi non sono più nostri ma sono di Israele. E ciò significa che dobbiamo importarli: è assurdo». I problemi, a Qalqilya, non riguardano solo l’economia che tracolla, la viabilità congestionata, il commercio senza convenienze, l’acqua razionata o l’agricoltura bracciantile. II dottor Basim Hashem dirige l’unico centro medico della città, convenzionato con la Croce Rossa Internazionale e la Mezza Luna Rossa Palestinese. Fa il possibile, ma le difficoltà sono all’ordine del giorno. E non sempre riesce a salvare una vita. «Le limitazioni alla viabilità in questo luogo, completamente chiuso in enclave, ci danno dei problemi sulle patologie più gravi: infarti e ictus, ad esempio. Qualche volta, lo ammetto, mi è morto un uomo tra le braccia perché non siamo arrivati in tempo all’ospedale più vicino. Tutta colpa dei
check-point». Vedere una donna partorire in auto o su un taxi davanti a un posto di blocco non è dunque una rarità, in Cisgiordania. A Qalqilya, alla fine di Tulkam Road, i taxi sono tanti. Le donne pure. Dentro il mercato, in fondo a questo imbuto di mercanzie, c’è l’unico passaggio verso Israele, consentito solo a chi riesca a dimostrare che ha un lavoro dall’altra parte. Per chi contravviene ai divieti scritti sul cartello giallo, è pronta l’eventualità di essere freddati sul posto dall’esercito israeliano. Qui i cancelli si aprono solo due volte: alle cinque del mattino e alle cinque della sera. Tra i fiori, le cassette di frutta e i cespi di verdura, avanzano i braccianti, uomini e donne, dopo otto ore di lavoro. Intorno, il vociare dei bambini. A terra, bicchieri di carta, spazzatura, arnie sventrate. Dalla torretta, si affaccia il viso allungato di un ragazzo, un soldato israeliano. Fa l’ultimo controllo prima di smontare. La giornata è lunga anche per lui.