La storia della rivoluzione e la conquista del potere da parte di Mao Zedong è cruciale nel processo di legittimazione del potere cinese. Ma cosa sappiamo realmente di quella vicenda? Quanto sono affidabili le fonti alle quali si sono abbeverati gli storici, posto che è stata silenziata la voce di testimoni oculari quali i missionari? Sono domande scottanti quelle sollevate da Stefano Cammelli in
Quando l’Oriente si tinse di rosso, densa raccolta (423 fitte pagine) di saggi sulla rivoluzione cinese. In essi l’autore ripercorre il convulso periodo storico che va dal massacro dei comunisti operato da Chiang Kaishek nel 1927 fino alla fondazione della Repubblica cinese nel 1949, documentando «di che lacrime e di che sangue» si sia macchiata la rivoluzione di Mao. L’opera di Cammelli (già autore di volumi editi dal Mulino e da Einaudi) è stata pubblicata da un piccolo editore semisconosciuto, Polonews Paper, e con l’appoggio dell’Associazione culturale Ticino-Cina. «Le difficoltà di questo testo, che dopo due anni di attesa, ha dovuto accettare di uscire in un collana per specialisti, la dice lunga», è il commento amaro dell’autore. Il punto è che la tesi sostenuta e ampiamente documentata nel libro, frutto di 12 anni di lavoro, è a dir poco politicamente scorretta: la storia della rivoluzione cinese, avventura ideologica e mitica, alla quale buona parte della sinistra europea si è rifatta con ammirazione, va sostanzialmente riscritta. Con tutto il rispetto per «il pur pregevole sforzo di Enrica Collotti Pischel», docente universitaria e saggista, per decenni indiscussa autorità in materia. Il j’accuse di Cammelli (che ha consultato, fra l’altro, gli straordinari archivi della Bethlehem Mission Immensee in Svizzera e dell’Istituto Saveriano Missioni estere di Parma) non conosce mezze misure: gli storici occidentali hanno pressoché ignorato le fonti missionarie, privandosi così di una componente preziosa, anzi irrinunciabile. Per quanto possa suonare strano, spiega Cammelli, «non è più possibile scrivere la storia della rivoluzione cinese senza conoscere italiano e tedesco», le due lingue in cui la maggioranza delle relazioni dei missionari in quegli anni sono state scritte. «Decidere di rinunciare a queste fonti è stata la scelta più incomprensibile e più errata di tutta la storiografia sulla rivoluzione cinese dagli anni Cinquanta in poi». Forse l’abbiamo dimenticato, ma attorno agli anni Venti del XX secolo in Cina operavano circa ottomila missionari occidentali (fonte: Propaganda Fide); ben due terzi di coloro che in quegli anni partivano dall’Europa e dagli Usa 'per gli estremi confini della terra' in obbedienza a Cristo approdavano in Cina. A dispetto della leggenda che vuole il 'Regno di mezzo' impenetrabile e ignoto, Cammelli può così scrivere: «Nella prima metà del XX secolo la situazione della Cina era un delle più conosciute e studiate al mondo», dal momento che «per raccogliere fondi e risollevare le sorti di quella 'fertile vigna di Cristo' (…) i missionari inviavano alle loro parrocchie delle semplici relazioni sulla vita in missione. Con continuità, per decenni». Commenta Cammelli: «È questa straordinaria complessità della figura del missionario, questa sua funzione di 'cerniera' tra due mondi la ragione per cui su questo immenso archivio occidentale è sceso un silenzio profondo. Nessuno dei due mondi, Occidente e Cina, si è riconosciuto in quelle relazioni. Il missionario era già 'altro' mentre scriveva». Lavorando da anni nel mondo missionario, chi scrive non può che confermare. Due emblematici esempi in merito, entrambi targati Emi:
La Cina di Mao processa la Chiesa, che, uscito nel 2008, ripercorre le complesse e tormentate vicende dei padri del Pime in Henan tra il 1938 e il 1954 e le lettere di padre Cesare Mencattini del Pime (uscite in volume nel 2011 col titolo
Una vita per la Cina, a cura del confratello Angelo Lazzarotto). Ma torniamo a
Quando l’Oriente si tinse di rosso. Cammelli afferma, ad esempio, che «molte sevizie che la letteratura missionaria ha raccontato (le giornate in prigione senza che nessuno spieghi cosa stia accadendo, l’essere costretti a stare seduti per terra per giorni senza potersi appoggiare al muro, senza alzarsi o sdraiarsi, la mancanza d’acqua, l’essere costretti a espletare i propri bisogni corporali esattamente dove si è seduti senza il diritto di alzarsi, ecc.) sono le stesse sevizie che descriveranno i dirigenti comunisti sopravvissuti alle purghe nel Jangxi e a quelle di Yan’an prima dell’arrivo di Mao». L’autore riporta parecchi passi di un volume autobiografico,
Nella terra di Mao-Tsetung, a firma di un missionario del Pime, Carlo Suigo, uscito nel 1961; in parte esso coincide con quanto scritto in
Stella rossa sulla Cina, il libro di Edgar Snow che contribuì a costruire il mito del comunismo cinese e la sua diversità da quello russo, in parte se ne distacca notevolmente. Una delle frecce più acuminate Cammelli la scaglia contro coloro «la comunità degli esperti», che «innalzò un muro di così alte dimensioni che ancora oggi pesa in molti ambienti universitari» su «due intellettuali raffinatissimi», uno dei quali era il gesuita ungherese Laszlo Ladany, per decenni anima della celebre 'China News Analysis'. (Un ricordo personale: appena arrivato a 'Mondo e Missione', nel 1994, ricordo che l’ex direttore, padre Giancarlo Politi, consultava puntualmente quell’esile bollettino giallo, fors’anche perché di Ladany aveva una conoscenza personale). Giunto in Cina alla vigilia della vittoria della rivoluzione, Ladany ne era stato espulso dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese; a quel punto, dopo aver rifiutato il trasferimento a Taiwan si era stabilito a Hong Kong, dove aveva pazientemente avviato il suo lavoro di «intelligence in chiaro», annotando, mese dopo mese, scrive Cammelli, «nomi, necrologi di dirigenti, presenze a manifestazioni e assenze, discorsi ufficiali, commemorazioni », e trasformando così la sua pubblicazione (attiva dal 1953 al 1998) in una sorta di sismografo in tempo reale del potere cinese. L’ostracismo degli esperti cadde su di lui perché, rileva Cammelli, «Ladany fu tra i primi a scoprire e denunciare l’avvio di massicce campagne di epurazione agli inizi degli anni Cinquanta; il primo a cogliere il delinearsi del progetto politico detto Grande balzo in avanti; il primo a comprendere quale immensa tragedia umana avesse provocato». Inoltre «colse le dimensioni e la vastità della tragedia della Rivoluzione culturale che fu tra i primi a presentare come movimento di pura epurazione politica della vecchia guardia non più fedele a Mao». Peccati imperdonabili per occhi accecati dall’ideologia.