Novecento. I cimiteri di guerra tedeschi, dove aleggia lo spirito della storia
Il sacrario tedesco al Passo Pordoi (1937-1943; 1956-1959)
Nel corso di due guerre mondiali la Germania ha visto morire oltre sette milioni di soldati: due nella Prima e cinque nella Seconda. Una massa enorme (superata solo da quella russa) che ha necessitato di una sepoltura. Se tra i sacrari italiani conosciamo bene almeno Redipuglia, e grazie al cinema abbiamo chiari i cimiteri di guerra americani, quelli tedeschi (per quanto non siano pochi sul nostro suolo) anche in virtù di un evidente tabù sono un oggetto incognito. Eppure sono un punto di osservazione privilegiato sul secolo trascorso, come rivela il volume di Marco Mulazzani La foresta che cammina. Le sepolture dei soldati tedeschi 1920-1970 (Electa, pagine 192, euro 36,00).
Lo storico dell’architettura, attraverso un meticoloso esame delle fonti e degli archivi tedeschi, ricostruisce le linee e i casi esemplari di un panorama composto da un migliaio tra cimiteri e memoriali, sparsi tra Fiandre, Prussia, Balcani, Francia, Italia, Africa e persino in Palestina. Questi luoghi sono stati in gran parte costruiti (e oggi curati) dal Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge ( VDK), fondato nel 1919 da politici, intellettuali, architetti, esponenti religiosi di diverse fedi e confessioni. Nata con un’anima trasversale, l’organizzazione però si sarebbe presto connotata dal punto di vista nazionalistico. Il contesto storico è quello di un Germania umiliata dal Trattato di Versailles e percorsa dalla negazione della sconfitta. La cura dei soldati caduti, osserva Mulazzani, diventa veicolo ideologico della reazione di una nazione umiliata.
In questo racconto hanno un ruolo importante due termini fondamentali dello spirito tedesco e del suo mito: Volk, popolo, e Heimat, impropriamente traducibile con patria. Questi luoghi sono definiti “ Ein Stück Heimat in fremder Erde”, un «lembo di suolo natio in terra straniera». A connotare germanicamente questi siti è la presenza sistematica di alberi che richiamano gli Heldenhaine, i boschi degli antichi eroi. L’archetipo è rivelato da Elias Canetti, che in Masse un Macht (1960) scrive: «Il simbolo di massa dei tedeschi era l’esercito. Ma l’esercito era più di un esercito: era la foresta che cammina. In nessuna parte del mondo il senso della foresta è rimasto vivo come in Germania. (...) Il tedesco cerca la foresta in cui hanno vissuto i suoi antenati e si sente ancora oggi volentieri tutt’uno con gli alberi».
Il paesaggio germanizzato ed eterno dalla foresta è un lembo di patria fecondato dal sacrificio dei giovani eroi in attesa della resurrezione del popolo tedesco. In questi cimiteri, dove l’individuo si scioglie inverando il suo destino di essere parte di un tutto, germoglia il clima che maturerà nel 1933 con l’ascesa del nazismo al potere. La foresta che cammina diverrà la massa indistinguibile dei nomi dei 2 milioni di caduti che Hitler e Speer progettano di scolpire nel granito dell’arco di trionfo della nuova Berlino.
A dare forma visiva e spaziale a tutto questo è dalla metà degli anni Venti l’architetto Robert Tischler, il principale referente del VDK, che nei progetti valorizza proprio i luoghi d’onore collettivi, e quindi massificatori, a discapito delle singole sepolture. L’obiettivo sono edifici senza tempo, intrisi di stile eroico, in stretto rapporto con il paesaggio. Il linguaggio scelto da Tischler è significativo di una certa idea di sacralità: un curioso eclettismo di arcaismi di varia estrazione, da Micene all’antico Egitto all’architettura sveva, oltre naturalmente al vernacolo germanico, che si solidifica nell’idea di fortilizi i quali a loro volta daranno vita ai Totenburgen, i "castelli dei morti" chiamati a presidiare il territorio, come ad esempio a Bitolj, in Macedonia (1932-35). Qui la architettura domina monumentalmente il paesaggio colonizzandolo.
Colpisce la continuità nel dopoguerra. Il VDK, pur essendo strettamente legato al nazismo, non era mai stato organico al partito e questo gli consentì di riprendere rapidamente la sua attività, percepita anche come urgente e necessaria. Si assiste però a una divaricazione. Da una parte il VDK avvia una riflessione sulla modalità del ricordo dei caduti dopo due guerre mondiali e in particolare dopo il nazismo, con un rovesciamento della celebrazione degli eroi in "monito per la pace" e facendo di questi cimiteri un mezzo della "riabilitazione morale" del popolo tedesco. Dall’altra Tischler prosegue a progettare i nuovi memoriali su modello dominante del Totenburg, «deviando a più riprese il processo di revisione del passato verso le secche della sua rimozione».
È significativo, ad esempio, il caso del memoriale al Passo Pordoi, un fortino che presidia strategicamente il fronte dolomitico della Grande Guerra: progettato e in parte realizzato tra 1937 e 1943, viene completato tra 1956 e 1959 con alcune modifiche che non mutano però il senso generale del progetto. Così come è significativa la vicenda del memoriale a El Alamein che dopo essere stato avviato come progetto congiunto con la parte italiana, a cura di Paolo Caccia Dominioni, finirà per produrre due edifici separati: quello tedesco è un castello federiciano in mezzo al deserto.
Segni di novità sono portati dai cimiteri di Cassino-Caira dove Tischler, costretto a rinunciare a un primo progetto a mastaba nei pressi della Rocca Janula per l’opposizione del comune e dell’abata di Montecassino, modella con terrazzamenti semiellittici un colle in cima al quale si trova una grande croce, per la prima volta non collocata su un basamento. Il dibattito sul monumento per il cimitero di Costermano, nei pressi del Garda, evidenzia «il dubbio profondo – scrive Mulazzani – nei confronti di ogni espressione che suoni come affermazione di potenza». Meglio affidarsi alla semplicità e al silenzio.
Con la morte di Tischler il percorso accelera e dà adito a soluzione formali che, anche grazie alla presenza significativa e non esornativa di opere d’arte, incarnano il nuovo approccio. Un primo importante esito è il sacrario di Motta Sant’Anastasia, a Catania, di Diez Brandl (1959-1965), oggi in parte modificato. L’apice è però nel notevolissimo Soldatenfriedhof realizzato da Dieter Oesterlen al Passo della Futa. Qui, come osserva Mulazzani, il Totenburg è ribaltato in Totenberg, “montagna dei morti”. La richiesta del VDK è di evitare la sepoltura in cripta, ritenuta massificante, per un 'cimitero giardino'. Oesterlen non modifica ma asseconda l’orografia disegnando un ampio percorso a spirale culminante in una costruzione sommitale astratta che sembra completare ma non dominare il colle.
Veduta aerea del cimitero cimitero militare germanico della Futa (1960-1969), di Dieter Oesterlen - Akademie Der Kunste, Berlin - Dieter Oesterlen Archiv / Electa
L’architetto ripudia ogni convenzione retorica e rimando storico, condivide «l’idea che un cimitero di guerra debba far parte del paesaggio ma è convinto che questo non possa più intendersi in termini identitari». Al termine del percorso non si trova nessuna celebrazione ma un luogo di solitudine, inospitale e tragico, così come inospitale e tragica è la cripta abitata dalla grande corona di spine di Fritz Kühn.
La struttura che corona il colle può ricordare un castello, ma a differenza dell’“architettura perenne” delle fortezze costruite tra le due guerre, questa ne è un frammento, un oggetto ruvido simile a una cicatrice. Oesterlen sposta così il tema della fortezza all’interno del tempo e nel campo semantico della rovina. I soldati tedeschi appaiono dunque come vittime esse stesse della guerra. Il cimitero del Passo della Futa apre così il tabù della pietà non tanto verso i vinti e neppure verso il nemico, ma verso i “malvagi”, perché tali nella percezione comune sono ancora oggi gli uomini della Wehrmacht.