È dunque, partito l’anno dell’astronomia che lo stesso Benedetto XVI ha voluto
simbolicamente inaugurare quando all’Angelus dello scorso 21 dicembre ha indicato a quanti lo ascoltavano la meridiana posta proprio sotto i loro piedi in piazza San Pietro, il cui gnomone era l’obelisco che si levava al centro. Né poteva dimenticare di evocare i suoi predecessori « astronomi » , come quello straordinario Papa scienziato che fu Silvestro II, il pontefice dell’anno Mille, o Gregorio XIII, artefice del calendario che ancor oggi scandisce i nostri giorni o lo stesso Pio X, capace di allestire orologi solari. Noi ora vorremmo, invece, dedicarci a un particolare cielo di indole più teologica che astronomica.Il cielo biblico e quello di Dante. È popolato di angeli e di santi e ha per ianua («porta») e regina ( Regina coeli) Maria; al suo centro, però, si erge la Trinità gloriosa: è questo, ad esempio, il cielo modellato da Dante sulla planimetria tolemaica in nove sfere. È questo anche il cielo paradisiaco medievale, negato alle « anime prave » alle quali si ricorda: « Non isperate mai veder lo cielo » ( Inferno 3, 84- 85). Un cielo che, però, Francesco contempla anche nella sua quieta bellezza nel suo Cantico delle creature: « Laudato si’, mi Signore, per sora luna e le stelle,/ in celu l’ai formate clarite et preziose et belle » . Ma naturalmente alla radice di ogni tipologia celeste della storia della cristianità c’è sempre il cielo biblico che occhieggia ben 458 volte nelle pagine sacre col vocabolo ebraico shamajim e 284 volte col greco ouranós. D’altronde, chi non ricorda l’inizio della preghiera di Gesù: « Padre nostro che sei nei cieli » o l’avvio delle sue parabole: «Il Regno dei cieli è simile a…» o «la sua ascensione gloriosa al cielo?» Proprio per la sua immensità teologica il cielo delle Sacre Scritture non può essere rappresentato ovviamente in un planisfero letterario e spirituale completo. Ci accontenteremo solo di inoltrarci in qualche regione mistica, abbandonandone la visione d’insieme che, tra l’altro, materialmente è quella di una gigantesca cupola luminosa, detta in ebraico raqia’, cioè firmamento, sostenuta da colonne cosmiche le cui fondazioni penetrano, oltre la superficie terrestre orizzontale, nell’abisso caotico e infernale, antipodo del cielo. Una cupola sopra la quale freme l’oceano celeste, il cui flusso d’acqua, regolato da grandi serrande, può disseminare sulla terra la pioggia benefica o il diluvio devastatore. È per questo che appare, fin dalla prima, famosa pagina biblica della creazione del cielo e della terra ( capitolo 1 della Genesi), la distinzione tra le « acque superiori » celesti e quelle « inferiori » dello sterminato bacino del mare.Dal colossale serbatoio celeste scendono, dunque, acqua, grandine, brina, neve, venti, nubi e tempeste: «Dal Signore degli eserciti sarai visitata – canta Isaia ( 29, 6) – con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamme di fuoco divoratore» . Il mirabile «Salmo dei sette tuoni», il 29, è tutto scandito dal settemplice risuonare della parola onomatopeica ebraica qol che significa sia «tuono» sia «voce» ( divina). Le immagini per raffigurare la cupola celeste si moltiplicheranno: essa è simile a un rotolo dispiegato, dice Isaia ( 34, 4), che ricorre anche all’idea di un velo o di una tenda da beduini distesa dal Creatore con un gesto possente ( 40, 22); è una specie di basamento per un palazzo reale divino dal quale – è lo stesso testo isaiano ad affermarlo in modo pittoresco – Dio «siede e di lassù gli abitanti del mondo sembrano cavallette».Il simbolo più popolare nella tradizione cristiana sarà, però, quello del «paradiso» che, in realtà, è termine iranico ( pairidaeza) per indicare un giardino recintato, un parco protetto. Tuttavia questo vocabolo è piuttosto raro nella Bibbia ( nell’Antico Testamento ha una triplice attestazione solo « realistica » vegetale). Nella sua più diretta accezione celeste lo troviamo soltanto tre volte nel Nuovo Testamento: quando Gesù in croce assicura « il paradiso » al malfattore pentito con lui crocifisso ( Luca 23, 43), quando Paolo descrive una sua esperienza estatica che l’aveva « rapito in paradiso » ( 2 Corinzi 12, 4) e quando l’Apocalisse promette « al vincitore di dargli in cibo il frutto dell’albero della vita che sta nel paradiso di Dio » ( 2, 7). Sarà l’Apocalisse, sulla scia di una tradizione biblica antecedente, a rappresentare il cielo come una città perfetta, quadrata, gemmata, modellata sul numero delle pienezza, il dodici, e chiamata appunto la nuova e celeste Gerusalemme ( capitoli 21- 22).Sulla maestosa volta del cielo sono appesi «i grandi luminari» , cioè il sole e la luna, veri e propri orologi cosmici e liturgici per le stagioni, per il calendario delle feste e per il ritmo circadiano; su quella volta sono fissate le stelle e le costellazioni ( l’Orsa, l’Orione e le Pleiadi sono citate ad esempio in Giobbe 9, 9), i pianeti (Venere, «Lucifero» , è evocato da Isaia 14, 12, e Saturno, «Chiion» , da Amos 5, 26). È significativo osservare che, mentre nell’antico Vicino Oriente il sole, la luna e gli astri sono divinità, per la Bibbia essi sono semplici creature comandate dal Creatore nel loro lavoro e nelle loro orbite: «Sorge il sole, tramonta il sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà» ( Qohelet 1, 5); Dio «ha assegnato al sole una tenda: esce come uno sposo dalla stanza nuziale, si esalta come un eroe che corre sulla sua strada; sorge da un estremo del cielo, la sua orbita raggiunge l’altro estremo: al suo calore non v’è riparo!» ( Salmo 19, 5- 7).Con un sapiente biblico del II secolo a. C., il Siracide, «potremmo dir molte cose e mai finiremmo e dovremmo concludere solo così: Egli è tutto, Egli è il Grande, al di sopra di tutte le sue opere!» ( 43, 27- 28). La cosmologia è per la Scrittura Sacra un grande simbolo. Nel cielo è iscritto un messaggio che è continuamente decifrato e diventa Rivelazione. Vediamone solo qualche esempio. Di forte suggestione è il Salmo 19 che introduce una specie di racconto del cielo. È una strana narrazione senza parole eppure è voce potente e planetaria, è una musica silenziosa o bianca ( il bianco è la sintesi dello spettro cromatico, così questo silenzio stellare è concepito come la sintesi di tutti i suoni), è una «musica teologica» , secondo la definizione dell’esegeta Hermann Gunkel. Il cielo dei salmi e dei poeti. Ecco il canto del salmista: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette la notizia, senza linguaggio e senza parole, senza che si oda la loro voce. Eppure per tutta la terra si espande il loro annunzio, sino ai confini del mondo va il loro messaggio» ( vv. 2- 5). «Dio ha dato un tal linguaggio alla sua creazione che, parlando di se stessa, essa non può non parlare di lui, Dio» , commentava Karl Barth. La lezione teologica del cielo può essere altre volte inquietante ed esaltante al tempo stesso. È il caso di quel gioiello in assoluto che è il Salmo 8. Nel «silenzio eterno degli spazi infiniti» , quella «canna pensante» che è l’uomo, per usare le famose espressioni di Pascal, è solo un granello microscopico. Ancor più insignificante è la sua entità di fronte a un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti. Eppure è proprio questo Dio che si china sull’uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell’orizzonte cosmico.Ascoltiamo il corpus centrale dell’inno nella versione poetica di David M. Turoldo: «Quando il cielo contemplo e la luna/ e le stelle che accendi nell’alto,/ io mi chiedo davanti al creato:/ cosa è l’uomo perché lo ricordi?/ Cosa è mai questo figlio dell’uomo/ che tu abbia di lui tale cura?/ Inferiore di poco a un dio,/ coronato di forza e di gloria!/ Tu l’hai posto signore al creato,/ a lui tutte le cose affidasti:/ ogni specie di greggi e d’armenti,/ e animali e fiere dei campi,/ le creature dell’aria e del mare/ e i viventi di tutte le acque…» ( vv. 49). Si potrebbe continuare a lungo in questa scoperta del messaggio dei cieli. Gesù stesso, che contempla gli uccelli del cielo, dell’intero creato fa materia per i suoi discorsi in parabole; e protesta perché i suoi interlocutori sanno usare il cielo solo come campo di previsioni meteorologiche e non come segno di intuizioni epocali e di scelte trascendenti: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» ( Luca 12, 54- 56).Il cielo è, quindi, un grande codice teologico, è una delle più alte modalità per dire Dio e la sua trascendenza. È l’arca divina intatta in cui risuona la lode perfetta della corte celeste (si ricordi il Gloria in excelsis Deo di Luca e della liturgia cattolica o la grandiosa celebrazione dell’Agnello con solisti, coro e orchestra dell’Apocalisse), è il suo osservatorio da cui «si china a guardare l’umanità per vedere se esista almeno un saggio, uno che cerchi Dio» ( Salmo 14, 2). È l’orizzonte di luce da cui il Figlio scende nell’Incarnazione (divenendo anche «pane disceso dal cielo» per l’umanità affamata) per ritornarvi nella sua gloria pasquale, compiuta la redenzione («nessuno è asceso al cielo se non colui che è disceso dal cielo» , dice Gesù a Nicodemo in Giovanni 3, 13), è il luogo ove «Cristo è assiso alla destra di Dio» ( Colossesi 3, 1) e così via, in una variegata sequenza di testi biblici.Eppure c’è la consapevolezza dell’impotenza anche di questo simbolo, pur superiore e ideale, a dire Dio in modo definitivo. Il cielo non può esaurire l’infinito divino di cui è solo figura. È per questo che Salomone nella solenne preghiera di consacrazione del tempio di Gerusalemme affermerà l’insufficienza di ogni santuario, il terrestre e il celeste, di ogni spazio, di ogni perimetro per contenere Dio: «I cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che ti ho costruita!» (1 Re 8, 27). È per questo che nella palingenesi della salvezza finale anche i cieli saranno scardinati e svaniranno: «I cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta… Vidi, allora, un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi...» (2 Pietro 3, 10; Apocalisse 21, 1). Sotto le volte di questo cielo che ora contempliamo – verso il quale ascendono i lamenti disperati e fiduciosi degli uomini e delle donne, le loro bestemmie, i loro sogni, le loro attese – è però possibile dar vita a un coro di lode. È ciò che immagina il Salmo 148, un cantico delle creature diretto dall’uomo, che presiede questa liturgia cosmica, sullo sfondo dell’abside rappresentata dalla volta del cielo. Il primo alleluia è intonato nell’alto, dai cantori astrali; il secondo sale dalla terra e coinvolge ventidue creature (tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico). Scriveva un importante commentatore del Salterio, Luis Alonso Schökel: «Il salmista, chiamandoli per nome, mette in ordine gli esseri: sopra il cielo, due astri secondo i tempi e a parte le stelle; sotto il cielo, da un lato gli alberi da frutto, dall’altro i cedri; su un piano i rettili e su un altro gli uccelli; qui i principi e là i popoli; in due file, forse dandosi la mano, giovani e fanciulle. L’uomo li conduce, così disposti, alla celebrazione liturgica. L’uomo, pastore dell’essere, o liturgo della creazione? Il linguaggio, casa dell’essere o tempio della lode?». Il cielo dei filosofi. All’interno di questo monumentale tempio cosmico, la cui cupola è appunto il cielo, si dovrebbe collocare ogni rappresentazione biblica dell’orizzonte celeste. «Uno è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove». Con lo stesso sguardo di Giordano Bruno, che nel De l’infinito universo e mondi, uno dei suoi Dialoghi italiani, abbracciava il grembo infinito del cielo, si ferma, dunque, ancora oggi ogni uomo a contemplare quel «continente universale» , pronto a ritrovarvi cifre segrete, messaggi esoterici, ma anche nitide geometrie ed espliciti significati. Un testo sinagogale della liturgia ebraica di Shavu’ot, cioè di Pentecoste, immagina appunto che cielo e terra siano come una sterminata pergamena nella quale sono iscritte parole divine e sulla quale l’uomo può disegnarvi, con la penna fatta con gli steli, con le erbe e coi fiori, incessanti arabeschi di lode. Il cielo, dunque, racchiude in sé fisica e metafisica, è il campo delle rivelazioni astrofisiche e delle rivelazioni teologiche, è una volta simile al « ciel d’oro » delle cupole basilicali, musivamente tempestata di costellazioni, ma anche un ambito irto di satelliti televisivi e militari che vomitano volgarità e scagliano minacce.Il cielo è, quindi, un simbolo supremo, uno degli archetipi capitali in tutte le culture e in tutte le esperienze perché lega in un nodo d’oro due estremi: da un lato, si configura la realtà fisica spaziale coi suoi sistemi, i suoi corpi, le sue energie, le sue « meccaniche » ( e il telescopio di monte Palomar o quello della Specola Vaticana a Tucson nell’Arizona confitti col loro occhio negli spazi siderali ne sono l’emblema, come lo sono i satelliti appena citati); d’altro lato, al cielo è vincolato un mondo di metafore, di fantasie e di ideologie. L’oscillazione tra i due estremi della scienza e dell’allegoria rende affascinante anche all’uomo contemporaneo, forse scettico e agnostico, l’immensità degli spazi celesti, consapevole del celebre detto della Critica della ragion pratica di Kant: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me».