Dibattito. Chiese che non sembrano chiese? Un'altra tradizione per comunità rinnovate
La chiesa di Santa Maria Goretti a Mormanno, di Mario Cucinella
«L’architettura della chiesa non vuole più impressionare, ma proteggere«. È il titolo della analisi che pochi giorni fa il quotidiano spagnolo El País attraverso la firma di Anatxu Zabalbeascoa ha dedicato alle due chiese di Mario Cucinella a Mormanno (Cosenza) e di Benedetta Tagliabue a Ferrara (già oggetto in queste pagine, insieme a quella di Francesca Leto a Olbia di un articolo di Leonardo Servadio).
«Molti templi recenti – scrive la giornalista specializzata in architettura – riflettono la ricerca di vicinanza e verità perseguita dalla nuova liturgia che si svolge al loro interno». E prosegue: «Più accoglienti che abbaglianti, nelle chiese contemporanee il tatto sembra aver sostituito la vista. È l’umiltà che attira l’attenzione. L’austerità oggi sembra più convincente dell’opulenza, mentre la religione stessa si confonde nei templi con un’identità più spirituale – ed ecumenica – che rappresentativa di una fede incrollabile. La realtà è entrata nella Chiesa per avvicinarsi al conforto dei credenti».
È raro incontrare una lettura del problema dell’edificio chiesa così seria, sensibile e attenta. Di certo è impossibile trovare un articolo simile sulla stampa italiana, dove il tema della nuova architettura per il culto ritorna in modo ciclico ma con una polarizzazione semplificante e sviante. Da una parte il panegirico dell’archistar. Dall’altro la retorica che vuole le chiese moderne tutte brutte. Sia chiaro, il problema esiste e ha molte cause, ma questo approccio evita la complessità e l’eterogeneità del panorama. I giudizi si rivelano pregiudizi (l’affermazione che le chiese moderne siano tutte brutte ha la stessa qualità logica di quella per la quale immigrazione significa criminalità) e ignorano come metro le ragioni e le richieste, altissime anche in termini di responsabilità e di fantasia, della liturgia nata dal Vaticano II.
A mancare è, in sostanza, una critica preparata – ma anche una educazione dei fedeli. Gli stessi toni animano molti dei commenti sui social ad articoli e immagini di chiese moderne e contemporanee. Ciò che in genere viene contestato è il fatto che una chiesa non sembri tale. Sembra un problema di tradizione, in realtà è un fatto di consuetudine. La chiesa, secondo questo principio, dovrebbe essere una edificio allungato dotato di abside, facciata a salienti, meglio se con un rosone.
È un’idea storicista di chiesa, non storica. Ma soprattutto è un tipo di spazialità che pur radicato nell’antica basilica (la cui fonte, vale la pena di ricordare, è secolare) corrisponde al modello di chiesa valido per le grandi assemblee quanto per le comunità parrocchiali scaturite dalla riorganizzazione pastorale operata del Concilio di Trento. Una chiesa dotata di una precisa direzionalità in cui l’altare è meta di un percorso ed è pienamente visibile dai fedeli, per garantire una piena partecipatio anche se non actuosa.
Eppure questo non è il solo tipo di edificio chiesa elaborato in quegli anni. Accanto, per così dire, a una architettura standard per assemblee standard, si sviluppa in parallelo un’architettura peculiare per comunità peculiari. È il caso di Sant’Andrea al Quirinale (un noviziato), di San Carlo alle Quattro Fontane (un piccolo ordine), Sant’Ivo alla Sapienza (una cappella universitaria). Chiese che a volte “non sembrano chiese”, con uno stretto quanto sperimentale rapporto tra simbolo, spazio e liturgia: sulla base degli stessi principi tridentini.
Ma la parrocchia oggi non può più essere intesa come anche solo cinquant’anni fa. L’istituzione è in sofferenza anche perché le forme e i tempi della società non sono più allineati alla sua immagine. Ha senso riaffidarsi a una storia architettonica che a quella immagine dava corpo e struttura? Zabalbeascoa coglie la trasformazione in atto. Papa Francesco invita a dare vita a una Chiesa meno clericale e più sinodale. Se la tradizione ha un senso, ecco venire allora alla ribalta gli spazi plasticamente vivi di Bernini e Borromini come fonti di riflessione per comunità chiamate a ridisegnarsi e riconfigurarsi, a partire dalla liturgia.
La chiesa di Cucinella è dunque “tradizionale” nella ragione in cui muove dalla contrazione spaziale della chiesa berniniana di Sant’Andrea al Quirinale, dove il presbiterio è avvicinato all’ingresso senza perdere volume, e insieme la fluidità e la fantasia dell’articolazione borrominiana. Questo non diventa un semplice esercizio di stile. Cucinella mantiene in pianta il riferimento alla croce ma la ruota sul suo asse per accogliere l’assemblea nei suoi quattro bracci. In questo modo rinuncia all’abside: anziché collocare l’altare in fondo, lo spinge con una sorta di controabside all’interno verso il popolo di Dio, facendone non un termine ma un fulcro: dello spazio ecclesiale, della liturgia, della storia.