Agorà

Chiesa ed economia/6. Ricchi sempre più ricchi

Stefano Zamagni sabato 1 febbraio 2014
Come c’era da aspettarsi, la pubblicazione dell’Evangelii gaudium, il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio, il messaggio al World Economic Forum di Davos del 21 gennaio di papa Francesco hanno suscitato una ridda di prese di posizione, in Italia come all’estero, in gran parte di taglio non favorevole. Perché? La ragione è facile a dirsi: il Papa, non interessato ad alcun compromesso, non si preoccupa di sposare una sorta di linea mediana di pensiero nella quale ognuno possa trovare una qualche traccia del proprio punto di vista. Piuttosto, la sua è la scelta della minoranza profetica, di chi cioè si adopera non ad anticipare il futuro, ma a denunciare, con coraggio, il presente. Il filosofo della scienza direbbe che quello di Francesco è un esercizio non di “scienza normale”, ma di “scienza rivoluzionaria” che propone un paradigma diverso da quello dominante. A tal proposito, bene ha fatto Luigino Bruni a chiarire il senso preciso del termine esortazione che, in latino, significa sia “incitare con forza” sia “consolare, rialzare”. Tutt’altro dunque di mere raccomandazioni per buonisti.Quali i pilastri portanti della linea di pensiero del Pontefice circa il modo di intendere, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, il fenomeno dell’economia capitalistica di mercato, quale è oggi all’opera? Il Papa – si badi – non fa riferimento a un astratto modello di economia di mercato quale è quello narrato nella più parte dei libri di testo. In primo luogo, Francesco dimostra di aver ben compreso che a partire dall’ultimo trentennio, in seguito al dispiegarsi degli effetti congiunti della globalizzazione e della terza rivoluzione industriale, si è materializzata un’inversione del rapporto tra sfera economica e politica: l’economia è diventata il regno dei fini e la politica il regno dei mezzi. Non così – come sappiamo – nei due secoli precedenti, quando era la politica, in quanto azione organizzata responsabile del bene comune, ad indicare i fini che la società doveva raggiungere e al mercato si chiedeva la ricerca dei mezzi più efficaci per conseguirli. Occorre perciò agire – ci sprona il Papa – per rimettere a posto le cose.Da ciò consegue – e questo è un secondo pilastro – l’invito a cercare una via d’uscita pervia dalla soffocante dicotomia che vede, su un fronte, la tesi neoliberista secondo cui i mercati funzionano quasi sempre bene – e dunque non vi sarebbe bisogno di invocare speciali interventi regolativi – e sull’altro fronte la tesi neostatalista secondo cui i mercati quasi sempre falliscono – e pertanto occorre affidarsi alla mano visibile dello Stato. Invece, proprio perché i mercati – che sono necessari – spesso non funzionano bene, è urgente intervenire sulle cause dei tanti malfunzionamenti, soprattutto in ambito finanziario, piuttosto che limitarsi a correggerne gli effetti. È questa la via che è favorita da chi si colloca nell’alveo dell’economia civile di mercato – un alveo nel quale papa Francesco pare muoversi, in sintonia con l’insegnamento dei suoi ultimi due predecessori.Il mercato non è solo un meccanismo efficiente di regolazione degli scambi. È soprattutto un ethos che induce cambiamenti profondi delle relazioni umane e del carattere degli uomini che vivono in società. Di qui l’insistenza del Papa sul principio di fraternità che deve trovare un posto adeguato dentro l’agire di mercato e non fuori, come vuole il “capitalismo compassionevole”. Si osservi che papa Bergoglio non si scaglia affatto contro la ricchezza di per sé né si dichiara a favore del pauperismo – come più di un commentatore frettoloso ha scritto. Peraltro, ciò sarebbe incompatibile con l’idea cristiana di creazione e con quanto papa Giovanni XXII nel 1318, nella bolla Gloriosam Ecclesiam, già aveva chiaramente precisato. Il suo giudizio severo riguarda piuttosto i modi in cui la ricchezza viene generata e i criteri con cui essa viene distribuita tra i membri del consorzio umano – modi e criteri che un cristiano non può non sottoporre al giudizio morale.Ciò mi porta al terzo pilastro del pensiero di papa Francesco: la tesi della "ricaduta favorevole", di cui si parla nell’Evangelii gaudium, meglio nota come tesi "dell’effetto di sgocciolamento" ; una tesi che è efficacemente resa dall’aforisma – per primo usato, pare, dall’americano Alan Blinder – secondo cui «una marea che sale solleva tutte le barche». Per chi crede ad essa, non vi sarebbe da preoccuparsi della distribuzione di redditi e ricchezza, perché, alla fine, tutti finiranno con lo stare meglio; l’importante allora è aumentare la crescita della torta.Ora, è bensì vero che le gocce di ricchezza che scendono verso il basso avvantaggiano anche i poveri; ma se si accoglie la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, la domanda rilevante da porre è un’altra: è moralmente accettabile che chi si trova verso il fondo della gerarchia sociale, pur migliorando la propria posizione di benessere, veda aumentare la distanza che lo separa dal gruppo sociale di testa? Questo è proprio quanto è accaduto nel corso dell’ultimo trentennio, come Luigi Campiglio ha inequivocabilmente mostrato.
Invero, il Papa dimostra di capire quel che troppi osservatori e studiosi fingono di non vedere e cioè che povertà assoluta e diseguaglianza sono cose diverse. La globalizzazione ha certamente diminuito la povertà assoluta – quella di chi mette assieme meno di due dollari al giorno, in media – ma ha accresciuto in modo preoccupante i poveri relativi, ossia chi ottiene meno della metà del reddito pro capite prevalente nella comunità di appartenenza.Ecco perché la lotta alla povertà assoluta, di certo sacrosanta, non può essere sbandierata come rimedio anche per la lotta alle diseguaglianze sociali. Il fatto è che, mentre per condurre la prima lotta, è sufficiente intervenire sui meccanismi redistributivi – ad esempio tassazione, filantropia, ecc. – se si vuole agire sulla riduzione delle diseguaglianze occorre intervenire sui meccanismi stessi di produzione della ricchezza. E questo dà fastidio! Perché? Per la segreta (o meglio tenuta segreta) ragione che ciò verrebbe ad interferire con quello che J. Schumpeter chiamò (1912) il vero motore del capitalismo: la «distruzione creatrice». Il mercato capitalistico deve "distruggere", cioè eliminare imprese e persone per poter crescere indefinitamente. Agli espulsi penseranno poi, se del caso, i programmi assistenzialistici. L’economia civile di mercato mai potrà accettare la darwiniana distruzione creatrice che riduce le relazioni economiche tra persone a relazioni tra cose.Per chiudere. Un saggio recente di Marco Vitale ci informa che nel 1980 gli attivi finanziari erano pari al Pil mondiale (27 trilioni di dollari). Nel 2007, questi erano saliti a quattro volte il Pil mondiale (240 trilioni a fronte di 60 trilioni) ed, oggi, a crisi finanziaria ormai conclusa, quel totale è ancora aumentato. Nello stesso periodo, nella gran parte dei paesi i redditi da lavoro sul Pil sono scesi di oltre nove punti in media e la concentrazione della ricchezza ha raggiunto punte mai viste in precedenza. E si potrebbe continuare a lungo. Di fronte alla violenza di questi e altri fatti, papa Francesco, senza preoccuparsi di essere tacciato di "papismo" – la posizione che identifica il cattolicesimo con il Papa – ha ritenuto e ritiene di non poter tacere, perché sa che più la Chiesa è se stessa, più conosce critiche e riceve attacchi, di ogni tipo. D’altro canto, non è forse vero che la necessitas passionis della Chiesa discende direttamente dalla necessitas passionis del suo Fondatore?