Paddy Moloney avrà avuto si e no sei anni quando la madre gli comprò «per una sterlina e nove pence» il suo primo pennywhistle. Ma su quel flauto a fischietto il "folker" dagli occhi di ragazzo avrebbe costruito una delle più longeve avventure artistiche della musica irlandese; quella dei Chieftains, che festeggiano proprio quest’anno mezzo secolo di vita dando alle stampe
Voices of ages , lavoro decisamente ambizioso che prova a far dialogare passato e futuro aprendo il patrimonio della canzone tradizionale irlandese al top della nuova scena countryfolk anglo-americana. Di gran nome gli ospiti – Paolo Nutini, Bon Iver, Imelda May, Punch Brothers, Decemberists ed altri valenti alfieri del nuovo che avanza – selezionati con cura dal produttore T-Bone Burnett, eccezionalmente relegato al semplice ruolo di "assistente" per non intralciare il lavoro in cabina di regia di Moloney, che a 73 anni sprizza energia come un ragazzo. Risultato come sempre pieno, pur senza la voglia di stupire né il coté intellettuale del sorprendente
San Patricio dato alle stampe dai Chieftains due anni fa con Ry Cooder.
Signor Moloney, ce la fa a comprimere cinquant’anni di Chieftains in tre ricordi?Provo. Innanzitutto citerei il nostro primo concerto alla Royal Albert Hall, nel ’74. Vedere quattromila persone scatenarsi in quell’aristocratica cornice vittoriana per noi fu quasi un trauma, anche se non ci cambiò la vita visto che saremmo rimasti dei semiprofessionisti per circa un ventennio. Altro ricordo straordinario è quello legato ai due concerti milanesi del ’76 a Milano, perché il nostro amore per l’Italia è nato lì. Metterei pure il tour in Cina dell’ 83 quando suonammo alla Grande Muraglia divenendo la prima band occidentale ammessa a suonare in Cina.
Nel ’79 siete stati scelti come voce del Paese per suonare in onore della prima visita di Giovanni Paolo II in Irlanda.Fu una cosa clamorosa. Davanti a noi c’erano un milione e trecentomila fedeli, e quei nostri venti minuti di musica furono trasmessi dalle tv di tutto il mondo. Ma soprattutto c’era il Papa. E suonare per lui è stata un’emozione unica.
Torniamo al nuovo album. Come ha scelto gli artisti ospiti e T-Bone Burnett?Riascoltando la colonna sonora scritta da Burnett per il film dei fratelli Coen
Fratello, dove sei? l’ho trovata molto affine ad un mio album del ’92,
Another country, realizzato con Emmylou Harris ed altre glorie della country music. Ho capito che in fondo parlavamo la stessa lingua e gli ho affidato il compito di cercare tra i suoi amici quelli giusti per il progetto che avevo in mente.
Nel cd c’è anche un brano che documenta il duetto dei Chieftains con l’astronauta americana Candy Coleman in diretta dalla stazione orbitante.È accaduto lo scorso anno. Lei si trovava lassù e noi a Toronto. Spesso durante i concerti mostriamo il video di questo nostro «duetto spaziale» e la reazione è sempre di grande stupore. Con Candy ci conosciamo ormai da 16 anni, da quando me la presentò mia figlia Padraig, che allora viveva a Houston e lavorava alla Nasa.
Fra le centinaia di artisti con cui ha collaborato in questi cinquant’anni, quali ricorda in modo particolare?Sicuramente Paul McCartney, Mike Oldfield, Don Henley degli Eagles, Mick Jagger, Van Morrison, Jackson Browne, ma anche Monsignor Marco Frisina, musicista e biblista, che è anche direttore della pontificia Cappella Musicale Lateranense, con cui ho condiviso
Silent Night: Christmas in Rome , uno degli episodi più importanti della mia discografia.
Lei ha un’energia invidiabile. È vero che sta già pensando a nuovi progetti?Ho appena accompagnato alle Uilleann pipes John Montague in
The wild dog rose, album in bilico tra musica e poesia che, ancor più delle canzoni, mette la mia musica al servizio della parola. Un concetto che mi piace molto.