Gasp, tornano i vampiri! Per fortuna sono di carta, o anche di celluloide, ma certo è un’invasione. Dalla saga cinematografica di
Twilight ai fumetti, dalla riedizione dei classici (recentissimo il
Dracula di Bram Stoker presso Einaudi) ai
sequel più polpettoni, ai recentissimi denti aguzzi di Johnny Depp in
Dark Shadows; ma non mancano neppure saggi serissimi ad affondare gli avidi canini nel mito notturno e sanguinolento. Come mai tanto interesse? Le spiegazioni sono svariate – e tutto sommato poco convincenti. Se etnologi come Vito Teti – autore di
La melanconia del vampiro (Manifestolibri) – sostengono trattarsi di figure tipiche delle ere «di passaggio», altri più banalmente fanno riferimento alla crisi economica: che per l’appunto ci sta dissanguando... Ma c’è anche chi ritiene che sotto quel simbolo si occultino gli irrisolti conflitti della cultura contemporanea con la morte, chi vi legge una famelica metafora del sesso e chi invece – non senza fondamento – rintraccia dietro la maschera segnali addirittura religiosi: nel senso di una ricerca dell’immortalità, pur se immanente e pagana. Innegabile invece, rispetto al passato, il fatto che i vampiri d’oggi non sono più soltanto cattivi e spaventosi, bensì rappresentano spesso il bene/il bello, o almeno un tentativo problematico per uscire in positivo dal manicheismo piuttosto banale che li vedeva sempre dipinti in nero. Anzi, a guardar bene, l’immagine attuale della creatura notturna va ormai sublimando le reazioni del pubblico dalla paura in attrazione.Ma non si tratta della prima mutazione. Sono due secoli infatti, ovvero dall’omonima novella di John William Polidori (il segretario di lord Byron) uscita nel 1819, che
Il vampiro moderno ha cambiato le vesti da contadino in quelle eleganti di dandy aristocratico, scegliendo per le sue visite da nottambulo le stanze di pallide e nobili fanciulle e non più i villaggi miseri e barbari delle campagne slave; così ben illustra Tommaso Braccini nel suo
Prima di Dracula. Archeologia del vampiro (Il Mulino), che va molto indietro nella ricerca estendendola a tutti gli
zombie della storia, ovvero i «ritornanti» dal mondo dei morti – pur se essi molto raramente si nutrono di sangue. Nel segnalare che la prima occorrenza della parola
’upir avviene in Russia nell’XI secolo, Braccini documenta la diffusione della primitiva mitologia del defunto rianimato
in corpore (non un semplice fantasma, dunque) soprattutto in ambito popolare bizantino: nella zona slava i cadaveri che venivano ritrovati non decomposti – ventura piuttosto frequente, anche per la tradizione locale che imponeva di effettuare una precoce riesumazione – erano giudicati
ipso facto appartenenti ad eretici, dunque bisognosi di riti pacificatori per la quiete eterna loro ma anche degli abitanti del luogo, che altrimenti ne sarebbero stati disturbati e spaventati anche fino alla morte. Curioso: la salma incorrotta per i cattolici è invece popolarmente intesa quale segno di santità... Del resto, la Chiesa latina già dal XVI secolo è stata netta e quasi illuminista nel definire
fabula, superstizione, la credenza nei
revenants. Lo scriveva nella sua
Relation (1657) il gesuita François Richard, missionario nell’isola greca di Santorini: al massimo si tratta di «falsi resuscitati», rianimati dal diavolo. Un secolo più tardi il cardinale Giuseppe Davanzati in una
Dissertazione sopra i vampiri (1744) e il benedettino francese Augustin Calmet in analoga e molto diffusa opera (1746) riprendevano il tema cercando di ricondurlo ai principi scientifici dell’epoca. Fino all’intervento di papa Benedetto XIV,
alias cardinale Prospero Lambertini, che in un’opera canonistica del 1749 inseriva il capitoletto
De vanitate vampyrorum, conclusivo fin dal titolo: tutte invenzioni. In Oriente invece continuavano i riti barbari per «esorcizzare» i cadaveri anomali, quei corpi semi-mummificati che nel loro gonfiore potevano sembrare persino più floridi che in vita: bisognava bruciarne i resti, ovvero infiggere le spoglie nella terra con un paletto. Ed è forse il caso di ricordare come il personaggio storico (XV secolo) che dà il nome al conte Dracula fu il
voivoda di Valacchia Vlad III detto «l’impalatore», noto per destinare a quell’orrida pena gli eretici hussiti; vivi, ahiloro, però.Finite le analogie, al
vrykolakas (così il nome greco del «ritornante», oggi passato in molti idiomi slavi col significato di «lupo mannaro»: genere notturno cui Luca Barbieri dedica ora per Odoya un’originale
Storia dei licantropi) manca tuttavia un elemento assolutamente caratterizzante del vampiro: l’ematofagia. Donde viene questa caratteristica sete di sangue? Secondo Braccini «si tratta di un elemento tardivo» e di provenienza letteraria, forse derivata da contaminazioni con altre figure folkloriche slave, come la strega succhiasangue. Bisognerà dunque aspettare il 1897 perché uno scrittore come Bram Stoker resusciti il mito adattandolo; lo conferma Tommaso Pincio nell’introduzione alla recente edizione einaudiana di
Dracula: «Il vampiro come oggi lo conosciamo è un’invenzione tutto sommato recente, ha preso forma nel corso dell’Ottocento, trovando la sua canonizzazione pressoché definitiva sul finire di quello stesso secolo». Definitiva? No, come si accennava sopra. Anzi, se il vampiro di Stoker (irlandese protestante non alieno da sentimenti anticattolici) si muove ancora in un orizzonte religioso tradizionale, dove si capisce cioè da che parte stanno bene e male e alla fine quest’ultimo è vinto, «per la mentalità odierna, più che secolarizzata» – testimonia lo stesso Pincio – la sua figura rappresenta invece lo «sfumare dei confini, l’impossibilità di marcare differenze nette tra le cose, di resistere al caos». I bellissimi, immortali, nobili e pure generosi vampiri di
Twilight lo dimostrano: «Cedere un po’ di sangue in cambio della trasformazione è un affare convenientissimo». Dracula è diventato post-moderno e anche un po’ relativista.