La sua agenda oggi è meno fitta. L’ha sfrondata perché «la malattia mi ha costretto a fare i conti con il limite, mettendomi di fronte alla necessità di fare delle scelte. Scelte di impegni. Ma anche di valori e di priorità nella vita». Riccardo Chailly, dopo lo stop forzato, riparte. Lo fa dal Vaticano. E dal Teatro alla Scala. Perché il direttore d’orchestra milanese ha rinunciato a dirigere l’
Arianna a Nasso di Strauss al Festival di Salisburgo, ma non ai concerti al Piermarini con Stefano Bollani per proporre dal vivo il Gershwin che li ha visti per 35 settimane in classifica e il Ravel del
Concerto in sol che da poco hanno pubblicato con Decca. Ha rallentato il ritmo di lavoro, «ma non ho mai pensato di cancellare l’impegno preso con Roma per festeggiare gli 85 anni di Benedetto XVI. Venerdì 20 con il Gewandhaus di Lipsia, l’orchestra che guido dal 2005, dirigerò per il Pontefice la
Seconda sinfonia in si bemolle maggiore Lobgesang di Felix Mendelssohn Bartholdy. Un
Inno di lode, come recita il titolo, nel quale una luce di speranza illumina il buio del dolore».
È questo lo spirito con il quale riparte, maestro Chailly?La sofferenza, che tocca l’uomo sul vivo, costringe a riflettere. I problemi di salute che ho avuto nei mesi scorsi mi hanno fatto capire, una volta di più, l’importanza di saper scegliere i punti fermi della propria vita, di fare chiarezza su quei valori fondamentali che alimentano la nostra quotidianità. Prendere coscienza che nulla è eterno è una lezione che la natura offre all’uomo per poter amministrarsi al meglio facendo fruttare quello che ciascuno ha ricevuto.
Perché per questa ripartenza ha scelto la Scala e il Vaticano?La Scala è il teatro della mia città, dove ho debuttato giovanissimo e dove da 34 anni continua un lungo percorso: oggi ci sono Gershwin e Ravel, nel 2015 la
Turandot con il finale di Luciano Berio che aprirà il cartellone dell’Expo. In Vaticano andrò con la mia famiglia, mia moglie e i miei nipoti, come ho fatto nel 1964: avevo 11 anni quando con mamma e le mie sorelle accompagnammo papà Luciano a consegnare a Paolo VI la partitura autografa della
Missa Papae Pauli che aveva scritto per Montini.
Quest’anno si ricordano i dieci anni della morte di suo padre. Lei lo ha celebrato a Lipsia. L’Italia lo ricorda?Nella città tedesca, dove la sua musica non era mai risuonata, la <+corsivo>Missa<+tondo> è stata accolta con affetto. E penso che anche da noi sia arrivato il tempo per rivalutare la sua lezione che ha segnato il Novecento. Mi manca. Componeva di notte, perché di giorno lavorava come direttore artistico: ricordo che sin da piccolo, dalla mia camera, lo sentivo strimpellare sul pianoforte sino a tarda ora. Alla
Missa Papae Pauli teneva particolarmente tanto che ha voluto scolpire sulla tomba di famiglia le ultime parole della composizione,
Dona nobis pacem. Senza sapere della chiamata del Vaticano (suoneremo in aula Paolo VI), già da tempo avevo programmato per Lipsia la
Missa accanto al
Lobgesang. Solo un curioso destino? Forse un disegno più grande come insegna Mendelssohn in questa sinfonia che porteremo al Papa (saremo oltre trecento esecutori per la partitura eseguita per la prima volta nella Thomaskirche nel 1840). Una pagina che, come non si stanca mai di fare il Pontefice, offre una speranza.
Quale speranza la musica di Mendelssohn può offrire al mondo di oggi?Quella che gli orrori e le tragedie che colpiscono l’umanità non sono l’ultima parola. Che è poi il messaggio della Pasqua che abbiamo appena celebrato. Pur nel dolore e nella sofferenza c’è sempre un raggio di luce. L’aria nella quale il tenore canta «Noi gridavamo nelle tenebre», è il momento più drammatico dove ci sono i grandi punti di domanda sulla fatalità della vita e sul destino dell’uomo. «Sentinella a che punto è la notte?» si chiede l’uomo prostrato. E il coro risponde «La notte è finita»: è qui che il buio si illumina.
Quale notte vorrebbe fosse finita, oggi?Quella della guerra e della violenza. Benedetto XVI nel suo messaggio pasquale, e ancora, ieri ha chiesto a gran voce la pace. Mendelssohn, che invita a una fratellanza universale, può aiutare. Indica un percorso usando passi della Scrittura che culminano nel finale «Ogni vivente dia lode al Signore». Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte alla scelta, per un evento in Vaticano che celebra il massimo esponente della Chiesa cattolica, di una pagina che nasce da una cultura protestante. Ma qui trovo un messaggio ecumenico di una tale forza, capace di andare oltre le differenze tra le diverse fedi: Mendelssohn ha saputo trovare nei testi sacri la più profonda e spirituale fiducia nei segni che Dio ci offre.
Quale l’augurio per Benedetto XVI?Quello di continuare il suo percorso con il coraggio che ha dimostrato sino ad oggi nel farsi compagno di strada delle gioie e dei dolori dell’uomo. E di poter trovare sempre la sua serenità interiore per rispondere alle grandi domande dell’umanità: la certezza del suo credo è la fiducia che deve dare al mondo.