Musica. Chailly, il richiamo dell'“eterno” Macbeth
Il direttore d'orchestra Riccardo Chailly dirigerà “Macbeth” di Verdi il 7 dicembre per la prima della Scala
«È una tragieda mostruosamente attuale. E fa un certo effetto sentire quel «mostruosamente » scandito lettera per lettera da Riccardo Chailly. Che, parlando del Macbeth, colora l’avverbio di una tinta scura. Sinistra. La «tinta cupa e severa» che Giuseppe Verdi chiede per la sua opera «diabolica e infernale» ispirata alla tragedia di William Shakespeare. Macbeth, appunto, che il 7 dicembre alle 18 (diretta su Rai1 e Radio3) inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala. Sul podio il musicista milanese, direttore musicale del Piermarini, al suo ottavo Sant’Ambrogio. Protagonista, nel ruolo del titolo, Luca Salsi. Con lui Anna Netrebko, Francesco Meli e Ildar Abdrazakov. Regia (quarta inaugurazione consecutiva) di Davide Livermore che «avvicinando la vicenda ai nostri giorni – riflette Chailly – ci aiuta a capire ancora meglio che Macbeth è una tragedia mostruosamente attuale ».
In scena si vedranno skyline con grattacieli delle nostre città, ma in cosa è attuale, maestro Chailly, un’opera come Macbeth che racconta di streghe, profezie, delitti?
Rispondo citando Shakespeare che nella scena del sonnambulismo, che poi Verdi e il librettista Piave riprendono fedelmente nell’opera, fa dire alla Lady «Hell is murky! L’inferno è tetro!». Ecco l’abisso nel quale siamo trasportati, ecco il senso di un’opera che parla al nostro presente raccontando di un uomo, Macbeth, vittima di una dinamica di coppia in cui l’orrore è incarnato dalla Lady, una figura infernale. È un’opera diabolica dove la trama è tessuta da una donna che impersona il male. C’è il male. E c’è il potere, quello che Macbeth e la Lady bramano, e che, lo sappiamo, se inteso in modo sbagliato può portare alle derive di tirannia che ben conosciamo.
Il potere, il male, il soprannaturale…
Il soprannaturale c’è già nella Giovanna d’Arco dove la protagonista sente le voci di angeli e demoni. Nel MacbethVerdi va oltre identificando tre protagonisti Macbeth, la Lady e le streghe, un triangolo di morte da cui non si riesce ad uscire. E se le streghe fanno costanti premonizioni tripartite negative, quello tra Macbeth e la Lady è un rapporto labirintico che intrappola.
Citava Giovanna d’Arco, titolo che nel 2015 ha aperto quello che lei definisce un «trittico giovanile verdiano», proseguito nel 2018 con Attila e che ora approda a Macbeth. Perché è importante esplorare questo primo Verdi?
Perché specie in Macbeth c’è un linguaggio talmente evoluto per il tempo in cui è stato scritto da lasciare ogni volta stupiti. In questa partitura, scritta nel 1847 per Firenze e ripensata nel 1865 per Parigi, ci sono segnali imprescindibili che gettano una luce sull’ultimo Verdi, proiettando la scrittura ben oltre la trilogia romantica di Rigoletto, Trovatore e Traviata per il colore orchestrale e per la concezione del canto. Penso ad Otello, altra opera che si ispira a Shakespeare, scritta nel 1887, dove ci sono passaggi, specialmente sinfonici, che si trovano già in Macbeth.
Dunque nel primo Verdi c’è già il seme di tutto il Verdi che verrà?
Macbeth, dove il compositore fa un grande passo avanti rispetto a Giovanna d’Arco e Attila, lo dice bene. Sul leggio avrò l’edizione critica di David Lawton che offre maggiore chiarezza delle articolazioni e delle dinamiche, aspetti quasi impercettibili, ma che ci restituiscono una partitura in un modo inedito. E questo mi ha imposto di ristudiare completamente la partitura. Anche perché l’ultima volta che ho diretto Macbeth era il 1987 per il film di Claude D’Anna con Leo Nucci, Shirley Verret e i complessi del Comunale di Bologna. Allora non avevo ancora affrontato Otello, che ho diretto qualche anno dopo ad Amsterdam: ora, riprendendo in mano Macbeth dopo oltre trent’anni, le analogie tra le due opere mi risultano evidenti e vedo chiaramente l’evoluzione del linguaggio di Verdi dai titoli della gioventù ai capolavori della maturità, comprendendo una volta di più la grandezza di ciò che il compositore è riuscito a fare nel suo percorso artistico. In Otello, in Falstaff riconosco i frutti del seme gettato in Macbeth.
Macbeth che lei propone nella versione del 1865.
E, come raccomandava Verdi, con i ballabili, pagina di grande virtuosismo, dieci minuti di musica intensa che sono parte sostanziale della drammaturgia dell’opera, penso al terzo ballabile che è un valzer tragico, diabolico e presago di morte. Per questo con il regista Davide Livermore abbiamo pensato ad una pantomima alla quale partecipano anche i protagonisti. E per allontanarci da un linguaggio classico abbiamo chiamato un coreografo come Daniel Ezralow. Dalla versione del 1847, invece, prende la morte di Macbeth, il «Mal per me che m’affidai» poi eliminato nella versione del 1865. Una tradizione (ora avallata anche dall’edizione critica) iniziata da Claudio Abbado che ho fatto mia già nel 1984 quando ho diretto Macbeth a Salisburgo con Piero Cappuccilli. Ora la ripropongo perché in scena c’è un interprete con la personalità di Luca Salsi. Una pagina che offre al finale un senso teatrale fortissimo, con quel ritmo di marcia funebre che mi richiama il «Niun mi tema» di Otello. E i due strappi di fa minore e do maggiore sulle parole «vil corona » di Macbeth chiudono il cerchio con il preludio, dove i due accordi si ritrovano identici.
Il 7 dicembre tutto il mondo guarda alla Prima della Scala. Qual è il messaggio che volete dare quest’anno?
Si riparte, dopo l’inaugurazione a porte chiuse del 2020. Certo si riparte in un momento cupo con tutte le preoccupazioni che stiamo vivendo per le mutazioni del virus e per l’aumentare dei contagi. E forse non è un caso che in cartellone ci sia proprio Macbeth, titolo che per la quarta volta dal 1952 inaugura il cartellone. Torna ogni vent’anni per dire qualcosa di attuale alla nostra società.