Un bambino che si arrampicava sugli alberi della Galilea pensando che, lì vicino, doveva averlo fatto anche Gesù. Un bambino diventato poi prete, vescovo e uomo di pace in quella terra, nel frattempo sfregiata dal conflitto tra arabi e israeliani. Si intitola
La storia di Elias Chacour il libro che Patricia Griggs ha scritto assieme al vescovo greco-melchita di Akko, Haifa, Nazareth e tutta la Galilea, che arriva in questi giorni nelle librerie italiane per l’editrice Jaca Book. Un volume che racconta la figura e la visione di padre Chacour: uomo conosciuto in tutto il mondo per il suo impegno nell’educazione alla pace e più volte candidato al premio Nobel. Narra infatti le sofferenze patite dalla famiglia del presule a causa della guerra del 1948; ma anche come proprio dalle macerie del suo amatissimo villaggio, Chacour abbia iniziato il percorso che l’ha portato a dare vita, in Galilea, alle scuole delle Mar Elias Educational Institutions, dove ragazzi cristiani, musulmani, drusi ed ebrei studiano insieme. Perché, spiega, «è solo attraverso l’educazione che si insegna a rispettare l’altro e la sua dignità. Insegniamo che ogni essere umano è nato a immagine e somiglianza di Dio. E dunque ha diritto alla stessa dignità, alla stessa libertà, allo stesso rispetto».
Padre Chacour, eppure oggi vi trovate a insegnarlo in un contesto in cui tanti messaggi vanno nella direzione opposta. «Non è il mio problema: io affronto le conseguenze. Se qualcuno è corrotto puoi accettare di esserlo anche tu? Sono convinto che solo attraverso il rispetto dei valori e dell’uguaglianza tra le persone ci può essere speranza per il futuro. Altrimenti, se continuiamo a insegnare ideologie settarie, potremo vincere qualche battaglia, ma perderemo la guerra vera, quella per la dignità delle persone».
Il libro racconta come la sua famiglia nel 1948 venne cacciata dalla propria casa nel villaggio di Biram. Che cosa vorrebbe raccontare di quel dramma agli ebrei israeliani che non vogliono più ascoltarlo?«Lei parla degli ebrei israeliani che non ascoltano: già questa è una generalizzazione sbagliata. Ci sono molti ebrei che capiscono, stanno con noi, anche se non hanno la forza di cambiare l’opinione pubblica. Come in ogni nazione anche in Israele ci sono ebrei che credono negli esseri umani e altri che credono nel potere della forza. Poi, è vero, esiste una destra religiosa fanatica. Ma è una situazione con cui dobbiamo fare i conti».
Come?«Non certo disprezzandoli, vorrebbe dire rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza. Non aiuta. Insegniamo ai giovani ad accettare sempre la dignità dell’altro, a perdonare, a cercare la riconciliazione. Puoi utilizzare le armi contro il nemico ed eliminarlo per un po’ di tempo; ma non risolverai comunque il tuo problema».
Lei ha ottenuto di ricostruire almeno la chiesa a Biram. Perché riaprirla in mezzo alle rovine? «Celebriamo i matrimoni, i battesimi, i funerali nella nostra vecchia chiesa: non abbiamo mai abbandonato la speranza di tornare. Alcuni anni fa è venuto a farmi visita Shimon Peres; l’ho accolto con calore, ma gli ho anche detto: sono originario di Biram; siamo ancora vivi e aspettiamo di tornare. "Eccellenza - mi ha risposto - lei ha lasciato quel villaggio sessant’anni fa e lo cita ancora. Quando lascerà perdere?". Mi dispiace, ho replicato, ma lei non è la persona più indicata per farmi questo discorso: voi ebrei siete stati espulsi dalla Palestina duemila anni fa e lo stesso ricordate che eravate qui... Ha dovuto ammettere che avevo fatto centro».
Che cosa significa per lei essere vescovo in Terra Santa?«Un onore, ma anche una responsabilità. La nostra è la diocesi più grande della Terra Santa, conta quasi 80 mila fedeli. Le questioni amministrative impegnano tanto tempo, ma io lotto per non dimenticare che il primo compito di un vescovo è essere un uomo di preghiera. Per difendermi ho aperto la mia casa a tutti. E cerco di visitare le mie 33 parrocchie almeno quattro o cinque volte all’anno».
La Palestina due mesi fa è stata riconosciuta ufficialmente all’Onu. Che ne pensa?«Che cosa dovrei pensare se oltre 130 Paesi riconoscono la Palestina come uno Stato? Si aspetta che sia triste? È tempo che i palestinesi vedano riconosciuti pienamente i propri diritti. Gli Stati Uniti, la Francia, l’Italia e anche Israele hanno accettato il principio dei due Stati. Che cosa c’è di sbagliato, allora, nel riconoscere lo Stato della Palestina? Quando parlavano dei due Stati non avevano capito a favore di che cosa si erano schierati?».
Come vede il futuro immediato della Palestina?«Non sarà facile arrivare davvero allo Stato, ci saranno problemi. Ma non vedo come il Medio Oriente possa trovare stabilità, e Israele sopravvivere, senza giustizia per i palestinesi».
Che cosa sogna per i ragazzi delle sue scuole?«Che possano coltivare la speranza di mettere a frutto le proprie capacità qui in Galilea, per costruire insieme lo Stato di Israele. Sì, Israele, perché il mio sogno sono due nazioni che vivano insieme. Non solo una accanto all’altra».