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Anniversari. L'enigma Cesare Pavese, tra storia, mito e la tentazione di Nietzsche

Alessandro Zaccuri giovedì 20 agosto 2020

Cesare Pavese

C'è chi lo sospetta da sempre: il paesaggio di La casa in collina è lo stesso che si intravede nelle ultime pagine di Dialoghi con Leucò, nelle quali due personaggi senza nome si interrogano sulla scomparsa degli dèi o, meglio, sull’invisibile presenza del divino. Quelli che abbiamo appena ricordato sono forse il più proverbiale tra i romanzi di Cesare Pavese e il libro che senz’altro l’autore più amava.

Usciti a un anno di distanza l’uno dall’altro (nel 1947 Dialoghi con Leucò, nel 1948 La casa in collina) descrivono il medesimo territorio di coste e di alture, ma lo collocano in due tempi differenti. Il romanzo sta tutto nella storia, e nella storia recente della guerra appena conclusa, della Resistenza più immaginata che vissuta, della sorpresa di scoprire che «i morti sconosciuti, i morti repubblichini» sono «qualcuno» il cui sangue chiede di essere placato. Ispirati dalla lettura degli studi di Károly Kerényi, Dialoghi con Leucò insistono invece sul tempo del mito, «quando queste cose accadevano», e cioè quando era ancora possibile l’incontro con il sacro.

Sono i due tempi di Pavese, appunto. Difficili da sincronizzare tra di loro e, più che altro, pressoché impossibili da far convivere nel profilo più comunemente accettato dello scrittore piemontese. Anche per questo, a settant’anni dal suo suicidio, avvenuto a Torino nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 (nato a Santo Stefano Belbo, nel Cuneese, il 9 settembre 1908, aveva da poco vinto il premio Strega con La bella estate), Pavese continua a essere un caso critico irrisolto. E non per mancanza di prove documentarie, sia chiaro. Al contrario, è proprio l’esuberanza di indizi a rendere tanto complicata l’interpretazione.

Lo dimostra in modo evidente il dibattito che negli ultimi trent’anni si è sviluppato intorno a Il taccuino segreto, solo adesso edito in volume da Aragno a cura di Francesca Belviso (pagine CXXVI+129, euro 25,00). Si tratta di appunti risalenti al biennio 1942-1943 e individuati per la prima volta all’inizio degli anni Sessanta da Lorenzo Mondo, che nell’estate del 1990 ne curò la pubblicazione sul quotidiano La Stampa. Una decisione sofferta e implicitamente osteggiata dagli intellettuali che con Pavese avevano condiviso l’avventura della casa editrice Einaudi: preso in consegna da Italo Calvino, l’originale è ormai irreperibile, ma restano le fotocopie prudentemente realizzate dallo stesso Mondo.

Perché tanta cautela? Perché quello del Taccuino segreto non è il Pavese che ci si aspetta. Al posto dell’antifascista esemplare, nobile nella sua intransigenza, incontriamo un intellettuale dubbioso, che valuta con favore il programma della Repubblica Sociale e si lascia tentare dall’ipotesi che gli italiani, passati per il cimento della guerra, possano finalmente diventare una nazione. Non sono i sintomi di un disorientamento improvviso, ma neppure le conseguenze di una piena adesione al fascismo. Piuttosto, è la conferma di come in Pavese convivessero «un antifascista estetico e un apolitico etico», come efficacemente sintetizza Francesca Belviso nell’ampio saggio che ora accompagna Il taccuino segreto. Un contributo importante, il suo, così come lo sono la testimonianza – misurata e implacabile – dello stesso Mondo, l’introduzione dello storico Angelo d’Orsi e la riproduzione di una parte sostanziosa degli articoli apparsi nel 1990, all’epoca del primo affioramento di queste carte.

Il quadro complessivo va nella direzione di un’intima coerenza non solo tra Il taccuino segreto e Il mestiere di vivere (per il suo diario di scrittore, com’è noto, Pavese rielaborava spesso annotazioni precedenti), ma anche con la sua opera di narratore, non esclusa appunto La casa in collina.

Uno dei punti più problematici è rappresentato dalla positiva valutazione del pensiero di Friedrich Nietzsche. Belviso se ne era già occupata in un saggio uscito da Aragno nel 2015, Amor fati, che fin dal titolo riprendeva un’espressione ricorrente nel Taccuino segreto. «Ci vuole l’amor fati di Nietzsche», afferma a un certo punto Pavese, che più avanti così riflette sulla propria esperienza personale: «Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà. Un destino. Amor fati».

Al più noto Pavese americanista, insomma, va accostato il germanista autodidatta che, entusiasmatosi per La nascita della tragedia, si cimenta nella traduzione della Volontà di potenza per poi concentrarsi, negli ultimi anni della sua vita, sui classici greci e latini, dalla cui frequentazione germinerà Dialoghi con Leucò. Questi tre momenti – individuati e commentati con precisione da Belviso – non possono essere del tutto distinti l’uno dall’altro, né considerati necessariamente in successione.

All’eventualità di una poesia capace di costituire una nuova epica nazionale Pavese, per esempio, si era interessato molto prima di lasciarsi tentare dall’ambigua mistica del “sangue e suolo” alla quale allude Il taccuino segreto. Per rendersene conto si può tornare alla sua tesi di laurea, discussa nel 1930 all’Università di Torino. Pubblicata in edizione fuori commercio da Einaudi nel 2006, ora questa Interpretazione della poesia di Walt Whitman viene resa disponibile da Mimesis (pagine 154, euro 13,00, in libreria da oggi).

Poco più che ventenne, qui Pavese appare già molto sicuro di sé, come giustamente osserva Valerio Magrelli nella sua nota introduttiva. Ma dietro la maschera dello «sbroffoncello» emergono i temi che caratterizzeranno la sua riflessione matura, non senza punti di contatto con Il taccuino segreto. Per Whitman, si legge nella tesi, la guerra è «la triste e insieme corroborante necessità del pioniere». Ancora più rivelatore un altro brano, nel quale vengono evocate «la tristezza della storia e le atrocità della guerra», a proposito delle quali Il taccuino segreto si esprime in questi termini : «Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci».

Neppure Whitman, del resto, è esente da pecche. Per il Pavese del 1930 sulla grandiosa epopea americana di Foglie d’erba grava comunque un’ipoteca letteraria, addirittura di stampo arcadico: Whitman «fece la poesia di questo disegno, la poesia di scoprire il mondo nuovo e cantarlo». Gli mancava il legame autentico con la realtà, insomma, lo stesso di cui Pavese non ha mai smesso di andare in cerca. A costo di molte contraddizioni, è vero, ma sempre sforzandosi di far coincidere il tempo della storia con il tempo del mito.