Arte. Pinin Brambilla Barcilon compie 90 anni: cercando Leonardo
C’è una frase di Picasso in esergo a La mia vita con Leonardo, libro in cui Pinin Brambilla Barcilon racconta i 22 anni passati sui ponteggi del Cenacolo. «Ci vuole molto tempo per diventare giovani». Tra il 1977 e il 1999, questi sono gli estremi cronologici del restauro e del libro, mentre il tempo del dipinto di Leonardo gira a ritroso, risalendo come in uno scavo stratigrafico verso il volto originale, anche il tempo di Pinin Brambilla, oggi novant’enne, prosegue su linee divergenti: «Il fisico invecchia, è vero – spiega con voce squillante – ma noi diventiamo sempre più giovani nello spirito».
Il volume, pubblicato da Electa (pagine 120, euro 19,90), verrà presentato domani sera nella basilica di Santa Maria delle Grazie a Milano, a pochi metri dal Cenacolo. Con lei ci saranno Alberto Artioli, Philippe Daverio, Pietro Marani e Pietro Petraroia, oltre a padre Guido Bendinelli, priore del convento domenicano. Tra i restauratori Pinin Brambilla è forse l’unica il cui nome è conosciuto dal grande pubblico. La lunghezza, la difficoltà, la straordinarietà dell’intervento, hanno fatto sì che col Cenacolo il restauro sia entrato per la prima volta nel dibattito pubblico. Gli altri casi mediatici, a partire dalla Sistina, sono venuti dopo. Eppure, racconta, «il restauro resta difficile da comprendere per un pubblico poco preparato, e ancora di più da giudicare, tanto per le questioni scientifiche ma anche perché è complesso capirne le ragioni e le differenze di opinioni. Il nostro è un lavoro di grande fascino. Si entra nello spirito dell’opera, si capisce come il pittore ragiona, i suoi mezzi tecnici, la poesia. È una cosa che rimane dentro. Il restauratore deve operare con le mani, e poi ci sono la mente e il cuore».
Il Cenacolo è stato anche uno dei primi restauri realizzati in mezzo alla gente. «Nelle pause del Cenacolo avevo fatto anche la Pala di Brera di Piero della Francesca col pubblico alle spalle, ma era un piccola cosa…»: Pinin Brambilla ha un sottile senso dell’understatement, per cui il concetto di «piccola» è da intendere nel termine delle dimensioni. «Ma nel Cenacolo avevo tutti i giorni e tutte le ore decine di persone alle spalle». All’epoca non c’era neppure come ora l’ingresso contingentato. «Lavoravo in mezzo al rumore. "Si sposti", mi dicevano, "vogliamo vedere". E i bambini che gridavano… Ho avuto la fortuna di essere calma e serena per tutto il tempo». I ponteggi sembravano un red carpet: «Venivano personalità da tutto il mondo. Grandi storici dell’arte, industriali, reali. La regina Beatrice d’Olanda mostrò una competenza non comune. Il principe Carlo ha rivelato molto interesse. Un uomo pieno d’humour, il principe. Lo è anche la regina Elisabetta».
Gli storici dell’arte erano colpiti dal vedere emergere un dipinto diverso da come lo si conosceva. «Gli apostoli cambiavano fisionomia. Prenda Matteo, per esempio. L’abbiamo trovato senza barba, giovane, con i capelli ricci e biondi. E con ancora un frammento del magnifico mantello blu, lavorato da Leonardo a doppia stesura con lapislazzuli e azzurrite. Rispetto agli abiti, i visi e le mani hanno resistito meglio al tempo. Leonardo realizzava gli incarnati con sei o sette strati di colore, mentre nelle altri parti non erano più di due».
Sono lacerti di quel trionfo di dettagli che Leonardo aveva affidato a una tecnica temeraria e fallimentare: la sfida di portare su muro gli effetti della pittura da cavalletto, con tutte le sue possibilità espressive, anziché usare il classico buon fresco, quasi eterno ma più "piatto". E già pochi anni dopo i contemporanei piangevano la scomparsa del capolavoro e si affrettavano a realizzarne copie, per fermarne almeno una traccia nella memoria di quello che si apprestava a diventare il fantasma di Leonardo. Impossibile quasi contare gli interventi subiti nei secoli dal dipinto per cercare di fermare un immagine inafferrabile. E così si accumulavano strati su strati, tradimenti su tradimenti. «Il Cenacolo aveva sperimentato tutte le malattie possibili» dice Pinin Brambilla. «Ma senza mai cadere. Neppure sotto le bombe finite nel 1943 sul convento, che fecero crollare il tetto del refettorio».
Quando lo avvicina la prima volta il dipinto le appare come «un ammasso di grumi, disseminato di piccole zone chiare là dove era caduta la superficie dipinta. Visto da lontano il complesso "stava in piedi", ma a pochi centimetri di distanza la materia pittorica risultava pasticciata, infelice». Un rebus. Pinin si arma di bisturi, pazienza e un microscopio a forte ingrandimento entro cui guarda per quattro ore al giorno: «Di più era impossibile. La fatica per gli occhi era incredibile e quando mi staccavo dalla lente rimanevo stordita per diverso tempo. È stata un’esperienza dura: psicologicamente e fisicamente. È stato un privilegio vincolato a una disciplina ferrea, severa. Ho lavorato sulla superficie per ritrovare la materia originale, scaglia per scaglia, frammento per frammento. Per ventidue anni».
Ogni volta che emergeva un dettaglio nuovo, Pinin Brambilla telefonava a Carlo Bertelli, allora soprintendente, a buon diritto co-responsabile della riscoperta del Cenacolo. «Bertelli arrivava subito in bicicletta e saliva sui ponteggi. Discutevamo entusiasti come bambini». Tornava a galla un Leonardo mai visto. «Le copie antiche del Giampietrino e dell’abbazia di Tongerlo si attengono alle linee leonardesche in modo rigoroso. Solo che non sono Leonardo: è tutto più duro, manca il pathos. La regina Elisabetta ci ha permesso di portare da Oxford nella sala del Cenacolo la copia del Giampietrino. Per questo non finirò mai di ringraziare l’Olivetti e il suo rappresentante Renzo Zorzi, uno sponsor di grande eleganza senza il quale il restauro non si sarebbe mai compiuto. In questo modo potevamo studiarlo nei minimi dettagli e abbiamo verificato che la copia era assolutamente fedele. Ad esempio Giampietrino riporta tappezzerie a fiori che sul muro non c’erano. Ma poi ne abbiamo trovato alcune tracce, tra cui un mazzolino preziosissimo di garofani quasi integro, reso con estrema libertà ed eleganza. I restauratori settecenteschi avevano pensato che fosse più rapido grattare via tutto e coprire con un colore olivastro e un disegno damascato rosso scuro».
Sedici anni dopo, Pinin Brambilla non ha smesso di tornare con la mente su quella immagine incontrata a tu per tu sui ponteggi. «Il Cenacolo è una pittura particolare. Più passano gli anni si riaprono questioni sulle intuizioni di Leonardo, le sue intenzioni». Non si finisce mai di diventare giovani.