Alla fine il Cavaliere si è stancato di giocare a scacchi con la Morte. L’esito gli sembra inevitabile, sa che prima o poi gli toccherà di dichiararsi sconfitto. Tanto vale lasciar perdere e non pensarci più. Il tempo passa anche in Svezia e
Il settimo sigillo, il capolavoro con cui nel 1957 il regista Ingmar Bergman faceva del Medioevo la metafora perfetta della moderna inquietudine esistenziale, rischia di apparire storia antica. Certo, da queste parti gli artisti non hanno mai perso l’abitudine a interrogarsi sulle questioni metafisiche, come sostiene il cardinale
Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura, introducendo la sessione scandinava del Cortile dei Gentili. Credenti e non credenti a confronto anche quassù, dunque, negli ambienti austeri della Reale Accademia delle Scienze. Ravasi cita un paio di narratori svedesi all’apparenza inconciliabili (Torgny Lindgren, cattolico, e Per Olov Enquist, agnostico dichiarato), ma entrambi instancabili nel sondare il mistero della condizione umana. Ora quel che resta da verificare è se una simile preoccupazione sia condivisa da questa che, statistiche alla mano, risulta la più secolarizzata fra le società dell’Occidente secolarizzato. La Svezia non è terra di ateismo militante, sia chiaro, quanto piuttosto una nazione di quieta indifferenza. Il dibattito che segna la prima giornata di questa escursione del Cortile nel Grande Nord in parte conferma e in parte smentisce l’impressione di un processo irreversibile. Si discute di com’è, o potrebbe essere, il mondo "con o senza Dio" e a fare gli onori di casa c’è l’ambasciatrice di Svezia presso la Santa Sede,
Ulla Gudmunsson, abilissima nel districarsi in un labirinto che a tratti appare vertiginoso. Apre i lavori lo scrittore
Georg Klein, per il quale la religione può ambire tutt’al più a dare sollievo nel momento della sofferenza: «Ma in questo anche la letteratura può svolgere una funzione decisiva», dichiara commentando alcuni versi di Rilke. In programma ci sarebbero poi una serie di duetti su temi assegnati («Che cosa significa credere e non credere?», «Esiste un mondo non materiale?», «Che cos’è l’uomo?»), ma le voci tendono a intrecciarsi, com’è giusto, anche perché alcuni dei relatori vantano passano con disinvoltura da un linguaggio all’altro. È il caso di
PC Jersild, medico e romanziere: il suo
Un’anima vivente, datato 1980, è il monologo interiore di un cervello tenuto in sospensione in laboratorio, mentre i ricercatori si danno da fare per migliorarlo e, se possibile, brevettarlo. «In quegli anni si faceva un gran discutere di emisfero destro ed emisfero sinistro, oggi il problema è affrontato in termini differenti – spiega Jersild –. La domanda, però, rimane la stessa: la coscienza necessita di una base corporea, oppure può svilupparsi anche al di fuori di noi?». L’interrogativo incuriosisce il fisico
Ulf Danielsson, che abbozza una distinzione tra conoscenza dell’universo esteriore, misurabile e verificale, ed esplorazione dell’interiorità umana, necessaria quando interminabile, dato che «non è affatto detto che si possa sperare in una risposta». Più prudenti le considerazioni di un altro scienziato, il biologo
Ingemar Ernberg, ateo pure lui, ma ancora affezionato ai dubbi che, qualche decennio fa, suscitavano lo scetticismo dei suoi docenti universitari. «C’era l’idea che uno studioso serio non dovesse interrogarsi su che cos’è la vita – ricorda –. Eppure gli stessi progressi della scienza dovrebbero insegnarci a essere più umili, a non fare troppo affidamento su conclusioni che spesso si rivelano provvisorie». Con le osservazioni di
Asa Wifkorss, una delle filosofe più note del Paese, ci si sposta decisamente nel territorio della speculazione teoretica, magari per riscoprire la natura "classica" di molti dei dilemmi con cui la cultura del XXI secolo è chiamata a misurarsi. «Già Cartesio aveva cercato di risolvere il dissidio fra soggettività e oggettività mediante le sue ipotesi sulla ghiandola pineale – dice –, ma il tentativo non è riuscito. Questo può aiutarci, se non altro, a diffidare di ogni teoria riduzionista». Un invito a uscire dalla mentalità dell’alternativa inconciliabile viene da
Antje Jacekelén, vescovo della diocesi di Lund e autrice di un saggio,
Dio è più grande, che ha molto contribuito a promuovere il confronto fra ragione e fede. «Quest’ultima è considerata dagli svedesi un fatto esclusivamente privato – avverte – e purtroppo è spesso tenuta in scarsa considerazione. A volte mi capita di parlare di scienziati che mi rimproverano: noi ci riferiamo a studi dell’ultimo decennio, voi teologi continuate a riferirvi all’antichità. Ma questo avviene perché il credente si confronta con domande senza tempo, che riguardano la natura dell’uomo». E così la conclusione spetta alla scrittrice
Ylva Eggehorn, nel cui sguardo brilla ancora l’aria impertinente della ragazzina che a 14 anni, dopo una scorpacciata di maestri della letteratura, si era convinta di essere atea. «Ma di notte, quando non riuscivo a dormire, avvertivo vicino a me una presenza benevola, invisibile – confessa –. Mi sono convertita per questo, non perché qualcuno mi abbia convinta con un ragionamento». Dopo tutto, il Cavaliere di Bergman potrebbe essere ancora in partita.