Novecento. Celli e gli smarrimenti di «quelli del Sessantotto»
Il manager e scrittore Pier Luigi Celli
C’era una volta il ’68. Ci sono adesso le sue rovine. Il tema è suggestivo, anche se non del tutto originale, e permea l’ultimo romanzo di Pier Luigi Celli, ex dg della Rai e della Luiss, per citare solo un paio dei suoi incarichi dirigenziali. Un managerscrittore noto per alcuni libri di successo editi da Mondadori e Chiarelettere. Stiamo parlando di La manutenzione dei ricordi, anch’esso per Chiarelettere (pagine 418, euro 18). Un libro talmente fondato sui fatti concreti e sulla loro rilettura attraverso la vita dei protagonisti che, pur essendo di pura fiction, non nasconde un intento di denuncia socioculturale già nella scelta di dotarsi di un sottotitolo, I ragazzi che fecero la rivoluzione, chiaramente saggistico. Il ’68 è quello di sei amici romani nell’età compresa fra l’ultimo anno del liceo e i primi di università. Vengono da esperienze in ambito parrocchiale o scoutistico e sono impegnati in attività sociali a cavallo fra il mondo cattolico delle comunità di base e l’attivismo comunista. Fanno doposcuola ai ragazzi delle parrocchie di periferia, frequentano il movimento studentesco, organizzano collettivi, si chiamano compagni e partecipano a proteste di piazza: sono fra quelli della cosiddetta 'battaglia di Valle Giulia' nel marzo di quell’anno. Il romanzo comincia con gli amici che organizzano un viaggio in Francia, in autostop, e prosegue col loro incontro cinquant’anni dopo in un paesino dell’Alto Lazio, all’interno di un piccolo ex convento francescano, riattato a buen retiro da uno di loro. Il set perfetto per recuperare il filo delle loro esistenze in un rimando continuo ad atmosfere spirituali e a episodi di gioventù, al tradimento degli antichi ideali, alla vergogna per non averli tradotti in scelte di vita coerenti. Un intreccio di vite e di umani fallimenti in cui via via assumono un ruolo chiarificante un medico, un prete, un paio di paesani, alcune donne (mogli, amiche, segretarie) e la morte di uno di loro, suicidatosi così come aveva fatto un amico in gioventù. Tutto questo, ci spiega Pier Luigi Celli, è la versione romanzata di fatti realmente accaduti, con quel ritrovarsi dopo quasi cinquant’anni in cui ci si era persi di vista.
Insomma, qual è la genesi del romanzo?
Una decina di anni fa mi sono tornati in mente i preparativi di quel viaggio in Francia nell’estate del ’68 e ho scritto di getto quello che poi è diventato il primo capitolo del libro. Tutto è rimasto nel cassetto, compresi i ricordi, fino a quando nel 2018, cinquant’anni dopo, mi è nato il desiderio di ritrovare i miei amici. Con l’aiuto di Carla Massotti (sua segretaria da alcuni decenni, ndr) li rintracciamo e ci ritroviamo in un bar. Veniamo da storie diverse, chi ferroviere, chi sindacalista, chi insegnante, chi impegnato nel volontariato in Sudamerica... quasi tutti con almeno due matrimoni, invecchiati, con la difficoltà di fare sintesi fra quel che siamo e quello che eravamo. L’inizio è stato difficoltoso, ma ci siamo rivisti e piano piano tutto è ritornato, le cose di un tempo e quelle di quando non eravamo più insieme. Anche l’amicizia è tornata: adesso che ci si può spostare di meno ci rivediamo ogni due settimane su skype.
Più o meno quello che succede nel libro. Quali altre cose uniscono la verità alla finzione?
Ciò che davvero si sovrappone è la necessità di fare i conti con i ricordi, con i fatti di quell’epoca e le loro conseguenze, con quello che avremmo potuto fare ma non abbiamo fatto, con i nostri errori nei rapporti con le donne, col decadimento di un Paese, di un sistema e la sensazione che sia stata anche colpa nostra.
Colpa vostra?
Se sei responsabile un po’ di colpa l’avverti. Eravamo partiti per 'incendiare' il mondo e invece tutto sembra cambiato in peggio. Eravamo i giovani rivoluzionari e ora, che siamo vecchi, la nostra non può che essere una confessione di impotenza. Volevamo fare la storia, ma che storia abbiamo fatto? Volevamo una vita migliore, ci battevamo contro le discriminazioni, per la libertà. Ecco, consideriamo la libertà nei rapporti fra uomo e donna... l’abbiamo affrontata con un’immaturità che ha creato problemi... non a caso ci siamo sposati due, tre, quattro volte. Sì, noi ci sentiamo delle colpe e ci siamo chiesti perché quelli che hanno imboccato la strada della violenza e del sangue, inguaiando una generazione, non se ne siano assunti la colpa.
Una generazione inguaiata?
Le faccio un esempio. Quando sono diventato capo del personale Rai sul 'Secolo d’Italia' è uscito il titolo: «Mara Cagol è morta, Curcio è in galera e Celli ha fatto carriera». Era la violenza ideologica di allora che proseguiva e attaccava me solo per il fatto che ho frequentato sociologia a Trento in quegli anni.
Con quella gente siete stati fianco a fianco.
Abbiamo ragionato molto sulle avanguardie violente di allora, sui grandi capi, sugli ideologi in cattedra (il romanzo li cita legandoli anche a fatti accaduti), sul problema delle br in un ambiente in cui era davvero facile scantonare e finire fuori posto quasi senza rendersi conto. Come ci siamo salvati? Perché non siamo mai stati violenti. La continuità con certi movimenti la percepivi anche se non riuscivi a razionalizzarla. Per molti fare delle scelte fra qui o lì è forse sembrato indifferente. Ma libertà non è lotta armata. Volevamo un Paese libero ma l’Italia di quegli anni è diventata un Paese blindato. E poi, sottolineano i protagonisti del libro, «i teorici della lotta continua, i capi, non i gregari, andate a cercare come si sono collocati...». E «a proposito di Valle Giulia, chi si ricorda i nomi di quelli che menavano le danze contro la Pula? Quel giorno noi eravamo intruppati in mezzo a tanti, ma lì davanti c’erano gli intellettuali, i capi carismatici... ». I nomi che seguono sono quelli che escono dalla cronaca di quei giorni.
E allora qual è la colpa di voi della truppa?
Come dice Hannah Arendt è stato perso per strada il senso della felicità pubblica. Abbiamo smarrito l’orizzonte e al senso della condivisione abbiamo sostituito il nostro privato. L’individualismo ha preso il sopravvento sul sociale... per convenienza, per ignavia, per necessità. Ci pensavamo in una dimensione plurale da far crescere insieme, ora siamo in una società che si rende miseramente conto che la somma delle felicità private non può fare la felicità pubblica.
Un tradimento sociale?
E delle generazioni a seguire. Non abbiamo lasciato un buon esempio ai giovani. Quegli anni sono stati una fornace e a volte non si poteva controllare il calore. In un attimo eri di qua o di là della barricata. Coi miei amici facevamo doposcuola all’Acquedotto Felice e c’era don Roberto Sardelli e anche Chico Arguello che proprio noi abbiamo portato alla vicina 'parrocchia dei Canadesi'. La frequentavamo così come la comunità di base dell’abate di San Paolo dom Franzoni, come don Cadmo Biavati e preti controversi come i salesiani don Giulio Girardi e don Gerardo Lutte, andavamo a Barbiana e all’Isolotto di Firenze da don Enzo Mazzi. Cercavamo maestri, ma non siamo sicuri di esserlo stati per quelli venuti dopo di noi. I ragazzi hanno bisogno di maestri che dedicano tempo aiutano a crescere e a correggere senza imporre. Noi, come generazione, non abbiamo saputo trasformarci in maestri, anzi...
Cosa salva di quegli anni?
Certamente l’amicizia e l’ardore della gioventù che eravamo. Questo libro è un atto d’amore per l’amicizia in un’epoca in cui l’amicizia si è sfilacciata: questo vale la pena di insegnarlo ai giovani.