Agorà

Letteratura. Paul Celan, una vita in lapilli

Vito Punzi sabato 3 luglio 2010
La pubblicazione di testi inediti di Paul Celan, in Germania, è stata sempre occasione di accese discussioni e polemiche. È accaduto in particolare a proposito delle sue corrispondenze (il carteggio con Ingeborg Bachmann uscirà presto anche in Italia), ma non è stata esente da critiche neppure la raccolta delle sue prose mai pubblicate, affidata dall’editore Suhrkamp alla cura di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou. A suo tempo, era il 2005, in diversi puntarono il dito sulla consistenza di quel volume (ottocento pagine di commento per appena duecento pagine di prosa celaniana, diari esclusi), rimpolpato di scritti e interviste a Celan già pubblicati altrove e di testi attinenti all’accusa di plagio mossa al poeta originario della Bucovina dalla vedova di Ivan Goll. Detto dei limiti dell’edizione tedesca, vanno sottolineati ora i pregi dell’edizione italiana: il testo a fronte (prima francese, poi rumeno, poi, per lo più, tedesco), la disposizione dei "microliti" in ordine cronologico (dunque non tematico), la rinuncia agli scritti già editi e la riduzione all’essenziale dell’apparato di note. Scritti in un arco di tempo molto ampio (tra il 1947 e il 1970), i microliti, secondo la stessa definizione di Celan, «sono pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza» e integrano i vari tentativi in prosa editi: la silloge di aforismi "Controluce" (1949) e il racconto "Colloquio in montagna" (1960). Più che gli abbozzi di racconto, davvero incomprensibili nella loro incompiutezza, sono le riflessioni sul "fare poesia" a risultare più riuscite ed interessanti. Anche perché sbocciate parallele al fiorire delle sue raccolte o maturate per criticare la società letteraria tedesco-occidentale, con la quale, a partire dal deludente incontro del 1952 col "Gruppo 47", da ebreo che usava il tedesco per scrivere poesie dopo Auschwitz, non ebbe mai rapporti facili. Apolide per condizione e in grado di padroneggiare più lingue, Celan conferma qui di voler «parlare come la propria madre» e di voler fare esperienza della lingua in quanto "patria", dove questa non può che essere la poesia come «lingua allo stato nascente»: «La patria del poeta è la sua poesia, essa cambia da una poesia all’altra». Sebbene costantemente tentato d’abitare la patria/poesia nella solitudine, nella lontananza dalla vita, Celan ha avuto sempre bisogno di un "tu" concreto e provocatore cui parlare della propria esperienza di "sopravvissuto", cui "comunicarsi". Come nelle poesie, così anche in non pochi tra questi microliti si rivolge dunque a quel "tu" che è anzitutto il lettore: solo questi può rendere la poesia "attualizzabile". E questo "tu" «è già lì, prima di arrivare». Tanto da lasciare immaginare a Celan un "noi", simile ad un ponte gettato tra poli in apparenza infinitamente lontani tra loro. Del resto, «un tratto essenziale del poetico» è «la sua pretesa d’infinito», che «a dispetto della sua ripetutamente esperita e anzi risaputa irrealizzabilità, viene avanzata sempre di nuovo». Il verso è per Celan il luogo dell’attesa del possibile manifestarsi dei un "altro" in grado di liberare dal peso ingombrante della lucida memoria dell’orrore, «per questo la poesia, in quanto memore della morte, appartiene a ciò che vi è di più umano nell’uomo». Lo spazio poetico celaniano è spesso dolorosamente frequentato da corpi e frammenti umani, che "stanno" ("stehen"), nel tempo, tra le ore e l’eterno, perché «l’incontro con la poesia appartiene al quotidiano e all’ovvio», e «si tratta, come in ogni incontro, del qui e ora». Quel "quotidiano", a dispetto dell’esito tragico della sua vita, conclusasi con il suicidio, Celan lo ha amato intensamente, e proprio attraverso la lingua poetica, fino a gridare: «Le poesie sono passaggi: sta a te passare, vita!». (Paul Celan. "Microliti", Zandonai, pagine 172, euro 18).