Il caso. Cefalonia, le verità nascoste
Resti di militari italiani dopo la strage compiuta dai tedeschi nel 1943 sull'isola di Cefalonia
Dalla farsa alla tragedia alla farsa. Cefalonia è un parametro di storia italiana, che richiede quindi coraggio a verificarla e riscriverla.
Il pesante sarcofago d’opportunismo sotto cui sono stati sigillati i fatti dell’eccidio da parte tedesca della Divisione Acqui occorso dopo i combattimenti del 15-22 settembre ’43, non ha garantito dal rischio della fuoriuscita di pericolose verità. Sotto quel pesante sarcofago erano stati infatti sepolti documenti e testimonianze di superstiti che avevano visto e denunciato una realtà pericolosa a dirsi: che gli “eroi” politico- militari erano stati i primi a tradire, a far morire i commilitoni; e che, andati via i tedeschi con cui avevano subito attivamente collaborato, si erano prontamente riciclati; tornati in Patria avevano ovviamente reso false e teatrali versioni del dramma che avevano provocato.
Una realtà che i familiari delle vittime conoscevano, testimoniata dalle lettere dei loro congiunti morti in combattimento o fucilati, e dalle relazioni di cappellani militari (don Romualdo Formato) e di altri ufficiali superstiti del comando di Divisione (Ermanno Bronzini e Livio Picozzi) conservate negli archivi militari. Documenti ben noti e già pubblicati, ad esempio, nei libri di Massimo Filippini, figlio del maggiore Federico, fucilato dai tedeschi a Cefalonia.
Un insieme di fonti che smentivano le falsità correnti ma politicamente obbligate tanto da spaccare l’associazione dei reduci della Divisione Acqui in due gruppi politicamente opposti. Ora Elena Aga Rossi, allieva di De Felice, col volume Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito (Il Mulino, pp. 252, euro 22), dà ufficialità accademica allo sfondamento di quel simbolico sarcofago. La documentazione che richiama e raccoglie è determinante e difficilmente controvertibile per un giudizio politicamente tranchant: al di là di «pochi militari che provenivano da famiglie contrarie al regime», nessuna spinta politico-ideologica aveva motivato i soldati italiani a combattere i tedeschi; piuttosto la speranza di tornare a casa, con un ipotetico supporto anglo-americano, prima e più sicuramente che arrendendosi ai tedeschi.
L’origine degli scontri infatti è assai poco eroica: mentre il comandante della Divisione Acqui, generale Gandin, consapevole dell’isolamento delle forze italiane senza alcuna possibilità di uscire dall’isola, stava ancora trattando con ufficiali tedeschi una soluzione che consentisse di «salvare la vita e l’onore» dei propri soldati, alcuni tenenti di loro iniziativa avevano fatto affondare a colpi di artiglieria due motozattere tedesche che stavano trasportando sull’isola non soldati e cannoni, ma materiale logistico; questo ed altri atti di analoga violenza erano occorsi senza che dal comando di Divisione fosse stato ancora impartito alcun ordine, né di resistenza, né di resa. Quindi nessuna eroica reazione politico-militare al tradimento o alle titubanze di colonnelli e generali, nessun “referendum” ideologico tra soldati, ma solo atti di irresponsabile insubordinazione che, provocando ingiustificatamente la morte di soldati tedeschi, avevano offerto piuttosto il motivo della dura reazione.
Per giunta, tra i pochissimi ufficiali italiani responsabili di quei gesti, alcuni dopo l’8 settembre avrebbero voluto passare subito coi tedeschi; determinato il caos sarebbero scampati alla fucilazione degli ufficiali; uno addirittura gettando vilmente i gradi e riuscendo a confondersi coi soldati semplici, salvo riapparire coi gradi a collaborare attivamente coi tedeschi e, andati via questi, a passare poi coi partigiani greci. A questo ideal-tipo di ufficiali, dopo la guerra si sarebbero spalancate le vie della progressione di carriera. Rientrati in Patria infatti le loro opportunistiche versione dei fatti (immediata e massiccia resistenza antitedesca di ufficiali inferiori e soldati, loro gesta eclatanti ecc.) avrebbero fornito la base della vulgata: il primo atto della Resistenza italiana.
Una vulgata di immediato e pronto uso politico, da condire con un inverosimile numero di vittime. La cui odierna e certificata riduzione, da 9mila a meno di 2mila morti italiani (in combattimento e fucilati dai tedeschi), non è di per sé l’elemento nuovo della sovversione del mito, ma l’indice della falsità necessaria a tenere alto l’epos resistenziale in cerimonie e ricorrenze, ben dopo aver saputo la verità. L’amarezza che assale il lettore è progressiva; porta generazionalmente a chieder conto del perché sia stata architettata una simile menzogna poi consapevolmente protratta nel tempo, coinvolgendovi ogni autorità, presidenti della Repubblica compresi. Un conforto viene offerto da pagine dunque di anti-eroi; di persone umili, coscritte, senza galloni sulle spalline, capaci di trasmettere nel dramma un’immagine di profonda, serena religiosità.
Si tratta delle lettere alla famiglia di un militare italiano della Acqui, testimone di quei fatti, raccolte e pubblicate dalla figlia, Luisa Bove, Il giorno in cui mio padre non morì( Indialogo, pp. 216, euro 16,90). Non ne emerge alcuna epicità, e sì che non ne mancarono atti, ma un amore soffuso, costante per la Patria, ritratto d’una generazione povera che ostentava orgogliosamente la propria povertà come testimonianza d’onestà; e in cui a rafforzare il vincolo d’affetto familiare era l’assiduità della preghiera. Financo dell’inversione dei ruoli nella reciproca preoccupazione: il soldato di Cefalonia, in una lettera appena precedente gli scontri, appariva angosciato per le sorti della famiglia a Milano devastata dagli indiscriminati bombardamenti alleati. Ferito negli scontri coi tedeschi del settembre ’43, l’artigliere Gino Bove finì all’ospedale; fu la sua salvezza.
Deportato in un campo di prigionieri in Bielorussia, poté riprendere le comunicazioni con la famiglia: di nuovo l’invito, davvero eroico, ad aver «fede e fiducia nella Divina Provvidenza» e ad accettarne «con spirito cristiano la sua santa volontà». Colpito dalla malaria, testimoniò di efficacissime cure cui fu sottoposto a Riga «in una magnifica clinica» per tutte le settimane necessarie alla sua guarigione. In queste nuove condizioni riprese a percorrere il circuito dei lager in uno dei quali, Sluch vicino Minsk, riuscì persino ad istituire una affollata sezione dell’Azione Cattolica. Testimonianze toccanti della fede popo-lare, del conforto reciproco e della speranza. Anche questa è una storia italiana; di un’Italia diversa, non tronfia, versipelle, opportunistica. Capace di pregare, lavorare e progredire, senza odiare e senza mentire.