Intervista. Cecchetto, l'ultimo dei videomecenati
Claudio Cecchetto in una foto di archivio
«Se c’è una persona sempre presente nelle mie preghiere, beh quella è Marcello... il cognome? Poi glie lo dico. Sa in questi giorni così strani si dimentica tutto... Era il proprietario della discoteca Panthea, qui a Milano. È lì che ho debuttato a vent’anni. Venti minuti alla consolle subito dopo il disk jockey titolare che riempì la pista, un delirio. Poi tocca a me e alla fine la svuoto. Rivedo ancora la scena: Marcello in fondo alla sala che parte deciso, dritto verso di me... Penso all’istante: questo mi licenzia in tronco. E fa bene, era stato un flop bestiale. E invece sorride e mi dice: “Claudio, questi di musica non ne capiscono niente. Tu diventerai il n.1 dei dj italiani, dai retta a Marcello”. Misà che aveva ragione lui».
Comincia da qui la parabola infinita di Claudio Cecchetto (68 anni il 19 aprile) che, secondo la profezia di Marcello, prima di assurgere a principe dei talent scout sarebbe diventato il più rivoluzionario dei disc jockey italiani. «La mia generazione aveva conosciuto solo il dj ombroso che cambiava i dischi in silenzio. Ma vedendo Cesare Zucca, storico dj del Divina, capii che la strada da aprire stava nell’animare la serata, diventare un “maestro di cerimonia” al servizio del pubblico».
Un colpo di genio, tra i tanti che ne ha fatto un’icona degli anni ’80, marchiati a fuoco come gli “anni vuoti”.
Etichetta quanto mai falsa. Si veniva dai ’70, gli anni cupi dei cantautori impegnati e quindi la musica disco e il disimpegno politico degli ’80 passava per “vuoto”, mentre invece c’è stata una pienezza incredibile data dalla capacità di creare per divertire la gente. In questa direzione si erano mossi prima di tutti Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Due apripista, che invidiavo... Io sognavo di essere loro che ero ancora un ragazzino.
Ma il ragazzino, il Claudio delle discoteche milanesi in un lampo bucò il video alla conduzione del suo primo programma, Chevingum, in onda su Telemilano 58, il futuro Canale 5.
Anch’io da talent scout ho avuto il mio scopritore, il grandissimo Mike Bongiorno che mi ingaggiò per la sigla del programma. Mi lanciai in un radiofonico quanto iperbolico: «Ed ora carissimi amici il fantasmagorico, eccezionale, straordinario... Mike Bongiorno!». Mike ascoltò il provino, scrollò la testa e mi disse: «Qui sei in tv, quindi, primo non gasarti troppo. Secondo, piedi per terra». In un minuto mi aveva dato la lezione che mi è servita per tutta la vita: umiltà e professionalità se vuoi arrivare al successo, che poi non è altro che la conseguenza delle tante cose che fai, restando sempre te stesso. E con i piedi per terra.
Il successo, quello nazionalpopolare, lo baciò già nel 1979 con Discoring.
Boncompagni che l’aveva ideato a un certo punto si stufa e subentro alla conduzione con Awana Gana e Rosanna Napoli al mio fianco. È stata la mia fortuna, buco sul serio lo schermo, mi faccio notare come il dj giovane che spara a mitraglia dischi, informazioni, ospiti e quant’altro, facendo diventare Discoring un programma cult.
La Rai non perde tempo e lo mette alla guida del “bolide” Sanremo: ha presentato tre edizioni di fila (dal 1980 all’82), del Festival, roba degna di un Baudo...
Gianni Ravera e Giovanni Salvi scommisero su di me a loro rischio e pericolo. Mi vedevano presentatore. Io gli dissi, «oh guardate che non sono mica Pippo Baudo, e poi con la musica italiana c’entro poco». Non fecero una grinza, avevano già deciso.
E fecero bene, fu un Sanremo “rivoluzionario”, da 20 milioni di telespettatori. Un trionfo personale.
Eppure ero partito male, al giovedì, la prima serata, faccio un’entrata delle mie, da incosciente, e mi impapero... Ci resto male. Alla fine dietro le quinte dell’Ariston mi sono parlato a muso duro: «Claudio sveglia! Qui non devi fare il dj che improvvisa, ti devi preparare». Da lì in poi tutta un’altra musica.
Preparato e sorridente, fino all’ultima serata con una spalla da Oscar, Roberto Benigni.
Quando seppi che mi avrebbero affiancato Roberto Benigni li spiazzai. Abituati alle scenette di gelosia delle prime donne Rai rimasero stupiti nel vedermi fare i salti di gioia, esultai come dopo un gol del-l’Inter. Roberto è sempre stato un genio, uno che ti stupiva continuamente. Gli autori dell’epoca impazzivano perché Benigni improvvisava e poi durante le prove baciava Olimpia Carlisi...
Reazioni?
Tutti scandalizzati. E io, «ma quante storie per un bacetto». Quel Sanremo servì a ripulire per sempre l’Italietta bigotta da quella patina di moralismo insopportabile. Ed ero fiero di aver contribuito, convinto da sempre che le barriere del pregiudizio andavano abbattute, a cominciare dalla tv.
Una risata vi seppellirà, ma nel suo caso è bastata una hit, Gioca Jouer, il primo “tormentone invernale”.
Quella canzone doveva uscire dopo l’estate, ma Ravera mi stoppa: «La facciamo diventare la sigla del Festival di Sanremo». Intuizione geniale, se fosse stato per me non avrei aspettato tanto... Risultato: mezzo milione di copie vendute in prima battuta e Freddy Naggiar, discografico di Al Bano e dei Ricchi e Poveri, dopo che avevo premiato Alice mi fa: «Claudio, guarda che Sanremo l’hai vinto tu». L’anno dopo, chiuso il mio terzo Festival ero al settimo cielo... stavo per tornare a Milano per dare il via a un’altra svolta professionale...
E quale sarebbe stata la svolta?
L’apertura di Radio Deejay, la domenica dopo Sanremo, 1 febbraio 1982. Mi sentivo come prima della nascita di un figlio. Per quattro mesi feci parlare soltanto la musica, volevo fare entrare nella testa degli italiani quella mia nuova creatura. Poi partii con la prima intervista in diretta, a Larry Hagman, il J.R. di Dallas e da editore lanciai il primo dj della radio, Gerry Scotti. Aveva già le valigie pronte per uno stage da pubblicitario in America ma lo convinsi a restare a Milano: «Gerry – gli dissi – , questa sarà la tua vita». Non mi sono sbagliato...
Carismatico e persuasivo il Cecchetto talent scout che ha lanciato un’intera scuderia di artisti che va dalla A di Amadeus fino alla V di Fabio Volo.
Da grande fan di Celentano mi ero messo in testa di creare un “clan” come il suo. Mi ispirai al gioco-scommessa che fece con Don Backy: chi perdeva doveva incidere una canzone con dentro un errore grammaticale. Vinse Adriano e Don Backy uscì con il brano Ho rimasto solo. Ecco, volevo ricreare un caffè letterario in cui, tra dischi, novità e risate, i primi a divertirsi fossero i protagonisti al microfono di Radio Deejay, la prima radio trasmessa in video.
Di quella squadra radiofonica, protagonisti assoluti delle scene continuano ad essere Jovanotti e Fiorello.
Ho sempre cercato i numeri 1, mai i numeri due. Lorenzo e Fiore certo sono due mostri, anche perché non ci sono altri come loro. Ma io allora non sapevo che non ce ne sarebbero stati più due così... Jovanotti era nato per riempire gli stadi. Fiorello all’inizio era indolente, tant’è che gli misi un programma a mezzogiorno per evitare che dopo le sue notti senza fine arrivasse in ritardo. È stata una stagione pazzesca, in cui credo di essere stato uno degli ultimi mecenati. La radio l’ho fatta prima di tutto con amore artistico, poi tutto è diventato business... E infatti se la sono comprata.
Leggo un po’ d’amarezza, forse qualcuno dei suoi pupilli non le è stato riconoscente?
Nessuno è stato irriconoscente, anche perché io prima di tutto sono stato una scuola e una famiglia. Abbiamo costruito programmi e carriere insieme, abbiamo riso, scherzato, pianto, e poi ognuno ha fatto la propria strada... Quando qualche progetto non mi convince mollo il colpo e riparto daccapo, perché è inutile accanirsi se sai che qualcosa o qualcuno non funzionerà.
Qual è il progetto che ha in mente ora?
Idee ne ho a getto continuo, ma manca chi le supporta. Per tutto quello che ho realizzato devo ringraziare solo me stesso, perché ogni volta che ho proposto qualcosa fuori dal mio ambito ho sempre trovato chi storceva il naso o provava a bloccare l’idea sul nascere.
Cambiamo frequenze: che ne pensa della musica attuale e del dominio dei rapper e della trap?
Sono perennemente sintonizzato su Spotify: mi piace scoprire, prima, tutto ciò che è nuovo. Non ascolto solo la musica bella, che è sempre più rara, così mi diverto a certificare in anteprima la musica brutta. Sul rap e la trap cosa posso dire... noi avevamo la disco music che ci entrava nel sangue, i ragazzi d’oggi si sentono rappresentati dai rapper e dalla trap. Del resto non si possono fare paragoni, è come se quelli che vivevano al tempo di Mozart e amavano la sua musica li portavi a un concerto dei Village People...
Concetto afferrato. Cecchetto ome combatte l’isolamento da Coronavirus?
Ho appena concluso la mia donationleague. it: l’unico campionato in cui vince chi è più generoso. E infatti hanno vinto gli interisti come me – sorride – . Non potendo scendere in campo i calciatori ho fatto giocare i tifosi che hanno donato fondi per la ricerca sul vaccino anti-Covid-19 all’ospedale Sacco. Tutti i pomeriggi, alle ore 18, su Instagram faccio #IGTalent, dei “provini” a giovani che vogliono far conoscere la propria musica. Scovato talenti? Chissà... E poi aspetto, come tutti, che passi questo tempo che ci sta cambiando. Ma sono convinto che Lui lassù rimetterà tutto a posto.
Sente? Dai balconi di Milano ora stanno cantando Gioca Jouer.
Vero – sorride – Ah, aspetti mi sono ricordato: Bascetta... il cognome del mio Marcello.