Agorà

L'ANALISI. L'anima «bianca» del Risorgimento

Dario Antiseri martedì 28 settembre 2010
È stato Sergio Cotta a porre in evidenza il fatto che esiste un legame interiore tra cristianesimo e pensiero liberale – legame consistente nell’idea stessa di libertà. Esattamente su questo legame verte la mia indagine sui cattolici liberali italiani del XIX e del XX secolo. I primi hanno operato in una situazione politica in cui preminente era il problema dell’unificazione dell’Italia con la connessa, e scottante soprattutto per il mondo cattolico, «questione romana» – problema che Gioberti, Rosmini, Ventura e Lambruschini pensavano potesse essere risolto attraverso una federazione con a capo il Papa. Ancor più difficili sono state le condizioni politiche e sociali in cui vissero, pensarono e operarono i secondi: la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, il secondo conflitto mondiale, una sostanziale egemonia della cultura marxista negli anni della Guerra fredda. E se non vanno dimenticati, per i primi anni del XIX secolo, né il movimento di Romolo Murri né la dura condanna del modernismo da parte della Chiesa, va tenuta presente una più lunga e diffusa ostilità di gran parte del mondo cattolico nei confronti di un liberalismo anticlericale e in odore di massoneria e, in nome di una spesso malintesa concezione del «profitto», della «competizione» e della «solidarietà», nei confronti di una economia di mercato vista come sinonimo di egoismo quando non di rapina e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Quella che va innanzitutto notata è la diversità delle prospettive filosofiche dei liberali cattolici italiani. È nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto (1840-1843) – sul fatto, e cioè sulla natura e la coscienza dell’uomo – che Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) elabora la sua prospettiva tomista. Tomista convinto e insieme ammiratore del pensiero di de Bonald è Gioacchino Ventura (1792-1861), autore de Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale (1860) e deciso avversario del razionalismo illuminista. Contrario, invece, alle «misere disputazioni delle scuole» è Raffaello Lambruschini (1788-1873). Avverso a quel razionalismo che riduce tutta l’esperienza al «fatto fisico» e che troverebbe la sua scaturigine in Cartesio, Lambruschini non ha fiducia alcuna nella metafisica (si vedano, al riguardo, i suoi Scritti di varia filosofia e di religione, 1939). Per lui, infatti, con i più sofisticati e sottili argomenti metafisici «non si è mai convertito un incredulo». Una concezione filosofica, la sua, definita eterodossa da La Civiltà Cattolica e considerata anche da altri come sostanzialmente luterana: «Luterino» venne definito il Lambruschini dal Guerrazzi. In uno «spiritualismo oggettivo» consiste, d’altro canto, l’influente prospettiva filosofia di Antonio Rosmini (1797-1855), con la sua attenzione a scrutare i tratti del divino nell’uomo (vedi Nuovo saggio sulle origini delle idee, voll. 4, 1830; e Antropologia soprannaturale, voll. 3, 1884). Evidente in pagine disseminate nelle opere letterarie e in quelle più direttamente impegnate in ambito storiografico o morale di Alessandro Manzoni (1785-1873) è il decisivo influsso di Rosmini. Per Manzoni – così egli scrive nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819) – «l’idea (...) della moralità, quale l’ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo (...) non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa». E, a suo avviso, «è sempre il dictamen interiore della coscienza che deve portare il credente ad accettare la legge cristiana che, d’altra parte, si inserisce nell’ordine della grazia e della carità» (così Passerin-d’Entrèves ne Le origini del cattolicesimo liberale in Italia). In una direzione diversa da quella di Rosmini trova i suoi sviluppi il pensiero filosofico di Vincenzo Gioberti (1801-1852). La sua «filosofia dell’essere reale» è una chiara forma di ontologismo. D’accordo con de Bonald e il tradizionalismo francese, Gioberti è persuaso che Dio si rivela alla mente umana e che la filosofia, pertanto, è «figlia primigenia della religione», riflessione sulla originaria rivelazione di Dio. La sua Introduzione allo studio della filosofia (1839-1840) volle essere un attacco contro lo psicologismo, che si rivelerebbe in quella decadenza soggettivistica che arriva fino a Kant, che in fondo impronta lo stesso sistema di Hegel (apparentemente oggettivo ma sostanzialmente psicologismo mascherato), e che trova le sue scaturigini nel primato attribuito da Cartesio al soggetto e nel libero esame difeso da Lutero: «La falsa politica creata nel secolo XVI nacque da cattivi ordini razionali che Lutero introdusse nella religione e il Descartes nella filosofia». E alla trappola del soggettivismo non sfuggirebbe – afferma Gioberti nello scritto Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841-1843) – neppure il Rosmini. Rosmini, a suo avviso, cade nello «scetticismo e nel nullismo», in quanto sarebbe assurdo pensare di risalire a Dio considerandolo come «un concetto nostro», come una costruzione della nostra mente. Contro Rosmini polemizzò, da una prospettiva diversa da quella di Gioberti, Matteo Liberatore (1810-1892), in base all’incompatibilità del pensiero rosminiano con il tomismo e a motivo del fatto che non avrebbe affatto evitato, il Rosmini, i pericoli dell’ontologismo. E se Carlo M. Curci (1810-1891) nel saggio Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai gesuiti (1845) replicò all’attacco sferrato da Gioberti contro i gesuiti nei suoi Prolegomeni al Primato (1845); il maestro sia del Curci che del Liberatore, e cioè Luigi Taparelli d’Azeglio, fu un sincero ammiratore dell’opera filosofica del Rosmini e non solo non partecipò alla campagna antirosminiana culminante più tardi nella condanna delle «XL Proposizioni», ma la disapprovò, «cosa, questa, ardita per un religioso della Compagnia di Gesù, nella quale però non mancarono altri come il P. Surin, il P. Bresciani, il P. Perrone che, amanti sinceri della verità, sapevano ch’essa si può e si deve discutere, ma non condannare, ed ebbero del Rosmini lodi lusinghiere» (così Gray).Dunque, non di rado contrastanti, ben diverse furono le prospettive filosofiche dei rappresentanti di maggior spicco del cattolicesimo liberale dell’Ottocento. E differenti lo sono state in quelli del Novecento. Difatti, se tradizionale fu la formazione filosofica – presso l’Università Gregoriana – di Luigi Sturzo (1871-1959), nell’orizzonte del pensiero empirista di tipo anglosassone si articolano le riflessioni filosofiche di Luigi Einaudi (1874-1961), mentre su basi soprattutto di teoria ermeneutica si collocano le argomentazioni di rilevanza «politica» di Angelo Tosato (1938-1999), allievo alla Gregoriana di Bernard Lonergan e di Alonso-Schökel, e di De la Potterie, Lyonnet e Martini all’Istituto Biblico. In ogni caso, se è la differenza a caratterizzare le concezioni filosofiche dei cattolici liberali italiani sia dell’Ottocento che del Novecento, va subito precisato che ciò che li unisce è l’idea di persona libera e responsabile. In realtà, è esattamente l’idea di «persona» quella da cui sgorgano e attorno alla quale ruotano le proposte politiche dei cattolici liberali italiani, il cui pensiero è attraversato e, sempre in maniera decisiva, «illuminato» dal messaggio cristiano. Non va, infatti, dimenticato, per dirla con Jacques Maritain, che «la nozione di persona è una nozione d’indice cristiano».