Dibattito. Diotallevi: «Cattolici e cultura, la sfida è il qui e ora»
Luca Diotallevi
La maggior parte dei discorsi su “fede e cultura” adotta uno schema che ricorre in due varianti: “intra/extra” e “prima/ dopo”. Secondo questo schema, la cultura sta “fuori” o “dopo” rispetto alla fede. Sembra banale, ma, una volta adottata questa prospettiva, ci ritroviamo con una fede che non arriva mai al “fuori” e neppure al “dopo”. Inevitabilmente segue il ripiegamento devoto ed il diffondersi anche nella Chiesa di una religione “a bassa intensità”. Bene ha fatto monsignor Sequeri a porre la questione e davvero meritevole è stata la scelta di “Avvenire” di coltivare il confronto che ne è seguito. Lo schema di cui s’è detto funzionerebbe se il rapporto tra fede e cultura avesse la forma del rapporto tra due culture. Quando a fine XV secolo gli spagnoli di Cristoforo Colombo arrivarono in America centrale effettivamente una cultura, ben dopo essersi formata, incontrò un’altra cultura ad essa esterna. Nulla del genere avviene quando si tratta del rapporto tra Rivelazione e storia, tra eventi del Regno e contesto socio-culturale. Ciò non perché Rivelazione o Regno siano culturalmente irrilevanti o indifferenti, al contrario. Come insegna la costituzione Dei Verbum del Vaticano II, Rivelazione e Regno si manifestano in parole ed opere. Queste parole e queste opere sono parole ed opere culturalmente e socialmente determinate e, allo stesso tempo, sono capaci di significare una realtà non vincolata in via esclusiva ad una determinata cultura o ad un determinato regime sociale. Walter Kasper lo diceva così: «L’esperienza religiosa [ l’esperienza di Dio] è una esperienza non immediata bensì mediata». L’esempio più elementare è quello offerto dal rapporto tra annuncio del Vangelo e lingue storiche. È impossibile annunciare il Vangelo se non in una lingua storica, ma nessuna lingua storica è perfettamente adeguata all’annuncio del Vangelo; per il Vangelo non esiste alcuna lingua sacra. Il Vangelo può e deve essere annunciato in lingue diverse, non ammette di sacralizzarne qualcuna e nello stesso tempo sottopone ciascuna lingua a torsioni ed alternazioni. A maggior ragione lo stesso vale quando dal caso della lingua ci spostiamo a quello ancora più complesso della cultura. La fede e la vita della Chiesa si manifestano come adesioni alla Rivelazione ed al Regno c h e s e mp re ha n n o l a f o rma di torsioni e di alterazioni di una cultura e di un regime sociale. La vita di fede non lascia mai intatta né la cultura né il contesto sociale in cui avviene. Rispetto alla fede, la cultura non è mai un “fuori” né un “dopo”. La fede cristiana è sempre anche un fatto culturalmente determinato, ma determinato nella forma di torsioni ed alternazioni, a volte di vere e proprie contraddizioni. È difficile trovare un testo magisteriale che esprima questo punto meglio della Evangelii nuntiandi di Paolo VI: «Per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (n. 19). Finché pensiam o la cultura come un “fuori” ed un “dopo” della fede, ci facciamo un doppio autogoal: per un verso indebitamente sacralizziamo una cultura, per altro verso rendiamo irraggiungibile la cultura con cui vorremmo confrontarci. Naturalmente non tutte le culture sono aperte al Vangelo nella stessa misura. Come spiegò Benedetto XVI al Parlamento tedesco, il diritto romano costituì per il cristianesimo un incontro fecondo quanto pochissimi altri. Questo però non fa della cultura giuridica romana un prodotto intoccabile né esime i cristiani e la Chiesa da tentativi anche in altre direzioni. Naturalmente, per il credente e per tutta la Chiesa resta sempre un dovere distinguere tra culture e contesti sociali influenzati dal Vangelo in misura maggiore ed altri influenzati dal Vangelo in misura minore. Per questa ragione è possibile parlare di “culture cristiane” sempre e solo in termini relativi, ovvero a condizione di non sospendere il discernimento e l’auto- critica di queste ed in queste “culture cristiane”. Il magistero, la teologia e qualsiasi altra forma di autocoscienza cristiana ed ecclesiale nel tempo conservano criticamente e cercano di approfondire e di coltivare la memoria di tutte le torsioni, le alterazioni e le contraddizioni generate dal credere e dal celebrare cristiano (dopo diciassette secoli non saremmo quelli che siamo se non ci fosse stato l’incredibile azzardo di Nicea!). Senza quella memoria il credere nostro e di ogni generazione cristiana sarebbe destinato a scegliere tra sterile ingenuità o vergognoso opportunismo. Per ragioni sociologicamente e teologicamente ovvie nessun “mondo cattolico” è mai stato né poteva essere fino in fondo “cattolico”. Per ragioni altrettanto ovvie il Vangelo non autorizza assolutamente i cristiani e la Chiesa a mettere sullo stesso piano quelle culture in cui anche grazie al cristianesimo è fiorita la libertà (democrazia, mercato, libertà religiosa, libertà educativa, ecc.) e quelle nelle quali la libertà e le libertà sono state e sono brutalmente represse. Nessun trabocchetto relativistico si nasconde alla fine di questo ragionamento, semmai esso costituisce un invito costante alla radicalità cristiana. Tale invito alla radicalità cristiana è invece contraddetto tanto da un’enfasi ingenua o pericolosa sulla “identità” quanto da una comprensione della “mediazione” come altro da un modo sincero, intelligente ed inevitabilmente costoso e rischioso di manifestare la differenza ed il differire cristiani. Del resto, il cristiano dialoga davvero con il non credente che ha di fronte solo se è abituato a lottare con il non credente che è dentro di lui. Il ragionamento qui abbozzato ha semmai un preciso esito ecclesiologico, felicemente richiamato dalla metafora della Chiesa come piramide rovesciata usata da Papa Francesco. È l’apostolato dei laici nel secolo il luogo nel quale si producono le alterazioni, le torsioni, le contraddizioni culturali e sociali attraverso le quali il Vangelo tanto si manifesta quanto è comunicato ( Lumen gentium n.31; Apostolicam actuositatem n.16). La pastorale e l’apostolato dei pastori è servizio – autorevole e se del caso severo – all’esercizio dell’apostolato dei laici ( Lumen gentium n.18) e non dovrebbe mai mirare – come invece sempre più spesso capita – alla riduzione dei laici ad “operatori pastorali” e “collaboratori del prete”. Concluderei con due tesi. Prima tesi. La crescente irrilevanza culturale della fede e della Chiesa in Italia dipende dalla umiliazione e quasi dalla cancellazione inflitte all’apostolato dei laici da una overdose di “pastorali” (overdose alla quale il laicato si è pigramente assuefatto). Seconda tesi. La irrilevanza culturale del cattolicesimo italiano dipende dallo smarrimento del “bandolo della matassa” del tempo presente. Questo smarrimento comporta la rinuncia o la incapacità di introdurre alterazioni, torsioni e contraddizioni dall’interno della modernizzazione italiana. L’analogo di quanto Sturzo e De Gasperi seppero fare noi non sappiamo più farlo. Domanda: dipenderà forse dal fatto che loro intendevano la modernità come kairos per la fede mentre di questi tempi si invita a fuggire la modernità sognando di imbrigliarla entro vincoli statalisti o miti populisti, spacciando illusioni di una armonia senza conflitto che nessuna pagina biblica ha mai promesso per un momento precedente l’Ultimo Giorno?