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Cattolici e cultura. Rocelli: «Per creare mondi servono visione, competenze e studio»

Gianni Santamaria lunedì 22 luglio 2024

Roberta Rocelli

«Siamo in una faglia ormai piuttosto evidente tra un mondo consumato, finito, deteriorato e quella che è un’azione di worlding, cioè di creare mondi. È ciò a cui l’operatore culturale è chiamato con i suoi ospiti. Oggi la capacità immaginativa è non solo una fonte di speranza, ma anche di rigenerazione delle persone e della società». Roberta Rocelli, direttrice generale del Festival Biblico, indica gli ingredienti per costruire un festival, ma in genere uno spazio di proposta culturale efficace: una cornice solida, tanto «fiuto di quello che i tempi ci dicono», delle «mappe culturali e fisiche» con le quali orientarsi. Perché iniziative, anche di successo, soprattutto dopo la pandemia non possono solo vivere sull’onda della partecipazione dell’anno prima. Rocelli si aiuta con la lettura di libri di architettura e urbanistica per calare nello spazio le proposte. La sua riflessione può, dunque, aiutare a “mettere a terra” le tante visioni emerse nel dibattito di queste settimane in un progetto organico. È quello che lei fa di mestiere, essendo una project manager per la cultura che da otto anni cura l’evento nato dall’iniziativa della diocesi di Vicenza e della Società San Paolo e che coinvolge non solo le diocesi del Veneto, ma anche la piemontese Alba, Catania e Genova.


In 20 anni avete coinvolto decine di migliaia di persone.


«Le medie di partecipazione sono state più alte fino al 2020 prima della pandemia. Poi come per tutti gli eventi culturali, la partecipazione è diminuita. E ci siamo anche resi conto che in quello che offrivamo c’era un surplus rispetto ai bisogni delle persone. Se poi si considerava l’offerta culturale complessiva, diventava una bulimia da eventi».


Dunque avete mirato l’offerta...


«Abbiamo puntato sulla profondità, la riflessività e la qualità, evitando di sovrapporre centinaia di avvenimenti. Questo ha portato all’idea di diventare “stagione culturale”. Cioè di rimanere accesi tutto l’anno con format nuovi. Oltre al periodo tipico per noi, che è maggio, con gli appuntamenti dal vivo, abbiamo realizzato due edizioni di podcast, per ragionare con i metodi di oggi sulle Sacre Scritture come uno dei codici che ci aiuta a leggere la contemporaneità. Questo anche in villeggiatura, con un week end “fuori porta”, espressione un po’ vintage, per uscire dalle città che aderiscono al progetto e andare in luoghi sottostimati turisticamente. Infine, le ultime due iniziative di quest’anno».


Quali sono?


«La “Scuola del pensare”, un laboratorio nato per fare formazione attiva al pensiero critico non attraverso lezioni frontali ma attraverso workshop, esercizi e perfino giochi, condotti da un esperto. Perché abbiamo visto che particolarmente in questo periodo il pensiero critico va un po’ in crash. Come cittadini facciamo fatica ad argomentare, a raccogliere informazioni per formaci un’idea. Ma soprattutto non riusciamo a dirimere la questione su quale informazione sia leale e quale sleale. Per cui fare scorta di qualche tecnica di pensiero critico può aiutare».


Soprattutto in tempi in cui l’IA pone sfide inedite al concetto di verità…


«Proprio sull’IA verte la seconda esperienza: il Festival Biblico in versione tech. L’IA è sul tavolo della discussione per mille motivi e noi ci siamo inventati un week end, tra il 9 e il 10 novembre, in cui a dialogare saranno intelligenze umane e intelligenze artificiali. Non tanto per mostrare la bontà, o la pericolosità, dell’una o dell’altra, quanto per dare una fotografia dello stato reale delle cose e così aiutare il pubblico a esercitare, ancora una volta, il proprio pensiero critico».


Questo del Biblico è un modello che può essere esportato anche ad altri àmbiti?


«Nel nostro gruppo di lavoro partiamo dall’orizzonte di un “welfare culturale”. Parliamo delle Sacre scritture, ma potrebbe essere un’altra disciplina o questione. Prenderle dal verso della cultura consente alle persone di radunarsi, di confrontarsi, di argomentare con libertà, di sapere che non c’è una risposta giusta o una domanda più opportuna di un’altra. Ma una dimensione è divenuta sempre più importante dalla pandemia in avanti: la salute mentale».


La salute mentale?


«Mediamente non stiamo così bene, siamo affaticati, vulnerabili, un po’ più fragili rispetto al sistema economico-sociale. E abbiamo motivi rilevanti per esserlo. La cultura, come esperienza e anche come consumo, può permettere di prevenire alcune fragilità sulla scorta di una consapevolezza maggiore delle cose. Partecipando a esperienze come il Festival Biblico, o altre, ci si attrezza per capire meglio il mondo e averne un po’ meno paura. Dalla geopolitica a questioni rilevanti di psicologia sociale, che ci dicono come stanno porzioni della società, il format culturale aiuta, perché è uno spazio sufficientemente libero, ospitale e inclusivo».


È possibile valutare queste ricadute sulle persone?


«È difficilissimo. Perché le persone, in generale, oggi funzionano in modalità “mordi e fuggi”, per esperienze che collassano sul presente. Quello che acquisiscono, però, lo possono riapplicare, in termini di reticoli di conoscenza, chissà quando e in tutt’altro contesto, senza nemmeno rendersi conto che ciò viene a galla dall’esperienza fatta, ad esempio, al Festival Biblico. Voglio dire che la ricaduta nelle relazioni, nella famiglia, sul lavoro, può non essere immediata. Non ci sono binari prestabiliti».


Sono anche modi per confrontarsi con chi è portatore di visioni a volte alternative alla fede. Come ha vissuto il confronto?


«Noi diciamo sempre che il Festival è una buona scusa per creare relazioni tra vari mondi. È l’esito di un confronto che avviene prima. E pian piano scopri che non è tra visioni diverse, tra credenti e non credenti, ma tra soggetti che culturalmente operano in una società stratificata, complessa, odiosamente difficile a volte».


Può quindi essere una buona prassi?


«Sì. Per una parrocchia, un ufficio diocesano, una grande diocesi, qualsiasi altra struttura. Ma richiede delle competenze, del tempo e una notevole fatica manageriale».


C’è una certa timidezza, perfino un complesso di inferiorità, dei cattolici nell’approcciarsi alle proposte “laiche”?


«Quello che col tempo mi è diventato chiaro è che più approfondisco una questione e capisco di cosa voglio parlare al mio pubblico, più strutturo un programma serio e autorevole. Di conseguenza non devo temere nessuno e mi confronto alla pari con altre proposte altrettanto serie. Inoltre negli anni abbiamo molto lavorato a costruire una cornice ordinata: nomi chiari, testi chiari, trasparenza nel rintracciare e usare le risorse economiche, una comunicazione nitida. E questo si riflette sulla comprensione da parte del pubblico. Noi operatori della cultura a volte pensiamo a ciò che più ci piace, che vorremmo noi, e ci inganniamo. Soprattutto dopo la pandemia, poi, non dobbiamo affidarci al dato storico della partecipazione, che in pochi mesi può saltare per aria. Piuttosto dobbiamo fiutare i tempi, che sono in continua scadenza. E sono ibridi».


Come comprenderli?


«Un dato della mia esperienza personale. Leggo molti libri di architettura e urbanistica. Perché il dove faccio le cose e il come “metto a terra” l’esperienza fisica influisce su come le persone riescono a vivere il contenuto. Queste “mappe” culturali e fisiche vanno a braccetto e contano più della partecipazione dell’anno prima. Anche se, poi, la ricerche del Censis, quelle dell’Istat o il Libro bianco di Confcommercio sui consumi culturali, uscito pochi giorni fa, sono certamente importanti per noi».


Quali le linee di azione possibili per il futuro?


«Siamo in una faglia ormai piuttosto evidente tra un mondo consumato, finito, deteriorato e quella che è un’azione di worlding, cioè di creare mondi. È ciò a cui l’operatore culturale è chiamato con i suoi ospiti. Oggi la capacità immaginativa è non solo una fonte di speranza ma anche di rigenerazione delle persone e della società. Solo che questa azione va condotta con metodo e va ripetuta molte volte per questi tempi a venire. Perché dobbiamo sperimentare, esercitarci a quello che verrà e che ancora non sappiamo».


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