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FRONTIERE. Catalogna, secessione in corso

Edoardo Castagna lunedì 4 febbraio 2013
Con la “Dichiarazione di sovranità” della scorsa settimana, il Parlamento regionale catalano ha compiuto un altro passo verso la secessione dalla Spagna. Nulla di irreversibile, per ora: ma l’assommarsi di tanti piccoli passi rende sempre più difficile fare marcia indietro. Anche perché ormai a questo cammino ha legato interamente il proprio destino politico il presidente della Catalogna, Artur Mas, in carica dal 2010. L’erede di Jordi Pujol, indiscusso capo della regione dal 1980 al 2003, guida un governo di coalizione tra il suo partito, Convergenza e Unione – nazionalisti (ex) moderati –, e la sinistra repubblicana, con l’appoggio esterno, tra gli altri, del Partito socialista catalano, branca locale del Psoe nazionale. Nell’autunno scorso era andato a elezioni anticipate, con il dichiarato proposito di ottenere una maggioranza forte a favore del suo progetto indipendentista. Ai seggi la coalizione governativa ha invece registrato a sorpresa un leggero regresso, pur conservando la maggioranza: Mas, con una giravolta, ha dichiarato di ritenere comunque sufficiente l’investitura per procedere sulla sua strada, e ha annunciato un referendum indipendentista per il 2014. La “Dichiarazione di sovranità” del 23 gennaio ne è la premessa: il Parlamento di Barcellona (la Generalitat de Catalunya) si è proclamato unico titolare delle scelte in merito all’appartenenza nazionale dei catalani, considerando quindi l’appartenenza alla Spagna una condizione provvisoria e comunque revocabile. Il gioco di Mas è arrivare a una secessione controllata, che consenta alla Catalogna di uscire dalla Spagna ma di rimanere al tempo stesso dentro l’Unione Europea e l’euro: un piano ambizioso che molti reputano fantasioso. Chiariscono per esempio i giuristi Francisco Sosa Wagner e Mercedes Fuertes: «L’indipendenza comporterà l’automatica esclusione dall’Unione Europea» con catastrofiche conseguenze sulla mobilità di persone e merci e l’immediata interruzione dei finanziamenti di Bruxelles, che condurrebbero la Generalitat alla bancarotta.
Intanto in Catalogna la secessione procede nei fatti. In tutta la ragione è pressoché impossibile trovare una singola scritta in spagnolo; alla castiglianizzazione di Stato degli anni Franco è seguita una volatile fase di equilibrato bilinguismo, e da anni ormai la catalanizzazione impera. Con non pochi problemi. Non esistono dati certi sui reali rapporti linguistici tra la popolazione delle quattro province; i catalonofoni sono comunque tutti bilingui, sebbene sempre più spesso facciano finta di non capire il castigliano. Il problema linguistico investe in particolare l’ambito della pubblica amministrazione – dove in genere il catalano è unica lingua, specie a basso livello – e soprattutto della scuola. Dall’asilo all’università, chi vive in Catalogna fa molta fatica a trovare aule dove si parli la lingua di Cervantes, con effetti di fatto discriminatori sia nei confronti di chi proviene da altre regioni della Spagna, sia della significativa massa di immigrati stranieri, provenienti per lo più dai Paesi dell’America latina. Per questo Barcellona contesta la nuova legge nazionale sull’educazione, che impone almeno un minimo di insegnamento del castigliano nelle scuole del regno. D’altro canto, la politica linguistica seguita dalla Generalitat ha consentito lo sviluppo di una fiorente editoria catalana, sia come produzione originale sia come traduzioni. La “catalanità” domina anche sul piano visivo: sono innumerevoli i balconi dai quali è esposta la bandiera catalana, nelle sue tre varianti – nazionale, indipendentista, comunista – e al tempo stesso quella spagnola è pressoché invisibile. Tra i comuni catalani ha preso piede l’iniziativa di proclamarsi “liberi” dalla Spagna. Sono già quasi duecento – incluse città come Vic o Tortosa e anche uno dei quattro capoluoghi provinciali, Girona – i sedicenti “territori catalani liberi”: con delibera ufficiale, in questi comuni sono normali giorni lavorativi le feste nazionali del 12 ottobre (Giorno dell’ispanità) e del 6 dicembre (Giorno della costituzione), sostituiti da ricorrenze locali in altre date. Un po’ come se in Italia una Regione proclamasse non festivi il 25 aprile e il 2 giugno. La difficile congiuntura economica influisce sugli aneliti indipendentisti, ma in maniera non lineare né facilmente decifrabile. Mas e compagni promettono che l’indipendenza farà da volano a un’impennata economica, soprattutto grazie al venir meno dei trasferimenti di risorse verso lo Stato centrale (la Catalogna paga di tasse più di quanto riceve da Madrid, sebbene abbia un bilancio in grave deficit). Ma se l’indipendenza comportasse – come pare probabile – l’esclusione dall’euro, allora le ricadute sarebbero gravi. Come anche le ultime elezioni regionali hanno dimostrato, questi continui strappi della politica paiono più trainare che seguire gli umori della popolazione. Le strombazzate partite della “nazionale” di calcio catalana (sostanzialmente, il Barcellona con qualche innesto) attirano poco pubblico nonostante i campioni in campo. E per strada si sente parlare più castigliano che catalano anche nelle roccheforti nazionaliste come Girona. Il ricorso alla lingua locale appare anzi più radicato – per l’appunto con finalità politiche e identitarie – tra le classi più elevate. Non è raro che in famiglia o tra amici si parli correntemente in castigliano, per poi passare quasi automaticamente al catalano non appena ci si trova in contesti pubblici.
È ancora presto per capire dove porterà la fuga in avanti di Mas, il cui governo è appannato da pesanti sospetti di corruzione che sfiorano lo stesso Mas e perfino lo storico “padre della patria”, l’ottuagenario Pujol. A Madrid il governo popolare di Rajoy lascia fare: il presidente ha liquidato la “Dichiarazione di sovranità” sostenendo che ha «zero effetti giuridici». Ha così evitato di sollevare la questione davanti alla “corte costituzionale” spagnola come pure chiedono con insistenza oltre il 70% degli spagnoli (secondo un sondaggio El Mundo/Sigma Dos) e vari settori del Partito popolare, che in Catalogna è rimasto l’unico convinto alfiere dell’unità spagnola. Intanto ha registrato la nuova richiesta di aiuti finanziari da parte della Catalogna: dopo aver ripianato l’anno scorso un debito di oltre cinque miliardi, quest’anno il conto è salito a nove.