«Ripeto fino allo sfinimento che nella vita ci vuole disciplina, un po’ di talento e soprattutto fortuna. Io ne ho avuta tanta. Ma peso centoventi chili, perciò ho i piedi ben piantati a terra... ». Basterebbero queste poche parole, tratte dalla sua autobiografia
Raggiungi la meta (della quale pubblichiamo sotto un breve estratto), per inserire nell’album dei campioni assoluti – in campo e fuori – il selfie inconfondibile di Martín Castrogiovanni. «Il mio è anche l’unico libro che ho letto, ma solo perché non volevo aver scritto delle stupidaggini... Sto imparando il francese, parlo tre lingue: italiano, spagnolo e inglese, ma non so scriverne nessuna», dice ridendo con la sua voce dolcemente cavernosa il pilone del rugby italiano. «Una specie di condominio vivente», così Luciana Littizzetto presentò sul palco dell’Ariston di Sanremo questo gigante, davvero buono, classe 1981, nato in Argentina, a Paraná, da una famiglia di emigranti italiani. «Il mio cognome proviene da Enna, che infatti fino al 1927 si chiamava Castrogiovanni». A vent’anni ritorno alle origini per il giovane Martín: la chiamata del Calvisano con cui vince lo scudetto, nel 2005. «Calvisano è stata la mia prima casa. In questo piccolo paesino nella provincia di Brescia ho imparato in fretta ad arrangiarmi, ad essere autonomo: lì sono maturato e diventato uomo», racconta dalla sua casa di Parigi. Un “big-man” dal cuore ancora più grande che si sente ancora un «eterno bambino sono uno che è cresciuto più fuori che dentro» - , nel 2002, pur tenendo il
corazón argentino aveva fatto la scelta: giocare con la nazionale di rugby italiana. Ad Hamilton nel 2002 ha coronato un sogno che dura ancora dopo oltre cento battaglie in campo internazionale, debutto in azzurro in Nuova Zelanda-Italia. Da Calvisano trasloca a Leicester dove dal 2006 al 2013 ha vinto tutto: quattro titoli nazionali – tre di fila – e il riconoscimento, mai concesso prima nel Regno Unito a un pilone, quello di “miglior giocatore dell’anno” (2006). «A Leicester sono state stagioni fantastiche. Ero l’italiano più famoso della città, adesso c’è uno più noto di me – sorride divertito –... È Claudio Ranieri: il suo Leicester City Football Club sta superando in popolarità i Tigers del rugby. Ogni tanto lo sento il mister, gli consiglio i ristoranti migliori della città. Auguro a Ranieri di vincere la Premier League, sarebbe un’impresa storica». A Leicester momenti storici e di gloria anche per Mr. Castrogiovanni, ma anche un’operazione alla spalla sinistra e l’apparizione di un male “incendiario”. «La pelle mi bruciava tanto. Diagnosi: intolleranza al glutine. Così ho scoperto di essere celiaco...». La celiachia, un bastone tra le sue ruote muscolose che però non frenano e non arretrano mai davanti a niente. «La mia parola d’ordine? “Resilienza” (ovvero: capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi). Ho più cicatrici che tatuaggi sulla pelle. Una “ferita” profonda alla schiena ha dato la svolta alla mia vita. Ringrazio Dio tutti i giorni e invito sempre tutti a non lamentarsi troppo. Quando hai visto il dolore e la disperazione negli occhi di un bambino malato e che è destinato a morire, allora comprendi a pieno quanto sei privilegiato ad aver il dono della sa- lute, ad essere riuscito a trasformare in lavoro il rugby, lo sport che adori. Così, inseguire una palla ovale sotto la pioggia o allenarti al freddo dell’inverno diventa una gioia immensa e fino a quando ne avrò la forza e la voglia non sarà mai un sacrificio». Resilienza al sacrificio, è ciò che lo ha trascinato al successo anche a Tolone. «Un 2014 da incorniciare, vittoria del campionato francese e poi della Coppa dei Campioni (l’Heineken Cup). A Cardiff battemmo gli inglesi, i Saracens, e poi l’anno dopo abbiamo fatto il bis contro Clermont». Ultimo approdo, Parigi, sponda Racing Métro 92. Ma come vive nella Ville Lumiere dopo gli attentati terroristici del Daesh? «Per il clima ho nostalgia di Tolone, abitare davanti al mare con venti gradi tutti i giorni era il massimo. Però Parigi è una città straordinariamente affascinante. Certo, abbiamo vissuto momenti difficili, i terroristi sono arrivati fino allo Stade de France... Ora la gente appena sente una sirena si guarda intorno, ha paura, ed è normale che sia così. Però l’altro mio motto è: guardare sempre avanti e farlo con coraggio e un pizzico di incoscienza». Anche l’Italrugby sta andando avanti, ha scelto il nuovo ct, l’irlandese Conor O’Shea che ha preso il posto del francese Jacques Brunel. «Mi è dispiaciuto per Brunel al quale posso dire solo grazie: mi ha sempre parlato chiaro in faccia e questo non è da tutti, ha avuto la pazienza di aspettarmi dopo l’infortunio e mi ha concesso l’opportunità di disputare il mio ultimo Sei Nazioni». Un brutto Sei Nazioni che ha scatenato attacchi e critiche feroci contro gli azzurri condannati al “cucchiaio di legno”, ancora ultimi del torneo. «La cosa che fa più male è vedere che chi ha gettato fango su questa maglia azzurra è proprio chi in passato l’ha indossata e che adesso apre bocca mosso solo da interessi “politici” o personali. Anche quando non giocherò più, io non mi permetterò mai di giudicare chi va in campo per la Nazionale, non si parla male di ciò che hai amato e che continuerai ad amare per sempre». Però è anche vero che l’Italia del rugby sul piano dei risultati non è cresciuta. «Ci vuole pazienza, il progetto è quello di puntare sui giovani. All’ultimo Sei Nazioni erano tanti quelli che non giocando nelle franchigie della Benetton Treviso o delle Zebre di Parma si sono trovati davanti avversari di altissimo livello, professionisti molto più forti. Diamo tempo a questi nuovi ragazzi, molti dei quali lanciati da Brunel, di crescere. Ma soprattutto aiutiamo i club a lavorare in piena sintonia con la Federazione. Vedrete che i risultati arriveranno». L’anno che verrà sarà sicuramente l’ultimo del Castrogiovanni azzurro, e alla vigilia delle trentacinque primavere è tempo di pensare al futuro, magari a bordo campo. «Non mi vedo allenatore. Dovrei fare come il mio primo “maestro” argentino, Sisto: se solo uno di noi in allenamento non toccava la linea di fondo l’esercizio lo faceva ripetere per dieci volte a tutta la squadra. Questo con professionisti adulti sarebbe impossibile. Allora meglio insegnare e trasmettere valori ai bambini come faccio nel mio camp, il “Castro Rugby Academy” (www.castroacademy.com; quest’anno sbarca a Piancavallo)». Tutti a lezione dal paterno “Castro”. «Non ne ho ancora miei e per il momento sto bene da solo, ma amo tanto i bambini perché sono ancora puri rispetto a noi adulti che quando cresciamo diventiamo stupidi e corrotti dall’ipocrisia.... Comunque nel mio futuro sento che non ci sarà solo il rugby. Potrei darmi anche allo spettacolo – ride divertito – potremmo anche fare coppia con la Littizzetto in tv: regalare un sorriso è uno dei doni più belli che si possa fare agli altri». Sorride alla vita Martín che dopo una mischia dolorosa o una sconfitta ha anche pianto. «Confesso, qualche lacrima a volte è scesa, ma ne vado fiero: chi sa piangere è un uomo migliore, più forte. Ho pianto da poco per la perdita di un caro amico e mi commuovo ogni volta che esco da un ospedale dove vado a trovare i miei “piccoli” malati... Il rugby comunque mi ha divertito molto, mi ha dato da vivere, e permesso di conoscere il mondo... Quella parte di terra che non conosco ancora andrò a visitarla appena smetto». Destinazione? «Basta piani e orari prestabiliti, stop a voli prenotati: salirò su un camper e per sei mesi viaggerò assieme a chi vorrà accompagnarmi... La meta, per una volta sarà ignota».