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Spiritualità. Varden: rispetto di sé, ecco il vero senso della castità

Erik Varden martedì 12 marzo 2024

Il vescovo cattolico rorvegese Erik Varden

Anticipiamo ampi stralci dell’articolo di Erik Varden “Riconciliare i sensi attraverso la castità”, che appare sul primo numero del 2024 di “Vita e Pensiero”, bimestrale dell’Università Cattolica, in uscita giovedì. L’autore nato nel 1974 in una famiglia appartenente alla Chiesa di Norvegia, ma non praticante, si è convertito a 15 anni dopo aver ascoltato la Sinfonia n. 2 di Mahler. Nel 1993 si è fatto cattolico e nel 2002 è entrato nell’ordine dei Cistercensi di stretta osservanza. È stato abate trappista di Mount Saint Bernard, in Inghilterra, e dal 2020 è vescovo di Trondheim. Il titolo della riflessione riprende quello del suo libro "Chastity: reconciliation of the senses", uscito nel 2023.


In un’intervista rilasciata il 27 maggio 2023, il cardinale Jean-Claude Hollerich, mai timoroso di pronunciare cose imprevedibili, osservò: quando tentiamo di parlare di castità alla gente del nostro tempo sembra di «parlare a loro in egiziano». L’affermazione mi colpì. Avevo appena inviato al mio editore a Londra un manoscritto intitolato Castità. Avevo in realtà scritto un manuale di egiziano? In un certo senso, sì. Sono convinto che abbiamo smarrito il vocabolario, la grammatica e la sintassi necessari per parlare di castità in modo intelligibile e che, di conseguenza, abbiamo perso di vista una dimensione cruciale dello sviluppo umano. So bene che ciò può apparire provocatorio. “Castità” è diventata una parola per antiquari. Descrive un insieme di atteggiamenti e un codice di comportamento associati a un’epoca passata. Molti esultano nel vederla ormai lontana. Sentendo pronunciare la parola oggi, siamo più propensi a pensare a una sessualità frustrata che alla forza di una virtù fresca di rugiada «limpida come il volto di Diana», per citare Otello.

Lo svelamento di abusi sessuali commessi da persone, uomini in maniera preponderante, che avevano professato un voto di casto celibato ha giustamente originato un’ondata di rabbia in tutta la società. L’ideale di castità appare screditato, senza dubbio una forma obbligatoria di osservanza religiosa. Spesso annunciato non solo come un ideale senza vita ma addirittura come mortifero, ci viene ora presentato piuttosto come un corpo in decomposizione che attende sepoltura. C’è un lutto che a esso si appiglia, è vero; ma esiste qualche motivo per piangerne la dipartita? Io credo che ci sia. Così mi sono impegnato a cercare che cosa c’è in gioco. Il mio libro non è né un’apologia della castità né la cronaca del fallimento di un habitus umano. È il tentativo di decodificare un linguaggio in parte perduto, di riscoprire la sua poesia.

Qual è la definizione di “castità”? Un gran numero di persone, incluse quelle che dovrebbero saperne di più, ritiene che “castità” equivalga a “celibato”, e che il discorso sulla castità sia un po’ come un codice sofisticato col quale i porporati esclamano dai pulpiti, hoi polloi, guardando verso il basso, «Scusate, gente, semplicemente non potete farlo». Questa riduzione è assurda. Legare la castità all’astinenza erotica, alla mera mortificazione dei sensi, significa renderla potenzialmente uno strumento di sabotaggio allo sviluppo della personalità. Significa anche fraintendere, distorcere e impiegare male il significato di una nozione complessa. La parola “casto” ci giunge, attraverso le lingue romanze, dal latino castus, usato dagli autori classici per tradurre il greco katharos, che signifi ca “puro”. Da katharos abbiamo catharsis, una parola fondamentale nella Poetica di Aristotele. Questo riferimento non è così pomposo come potrebbe sembrare. Ha strutturato la nostra reale comprensione dell’esperienza, che noi abbiamo letto opere di fi losofia greca oppure no. Aristotele usa la catharsis come un’immagine per la purificazione interiore che può realizzarsi in una persona che assiste a una tragedia. Osservando la rappresentazione scenica di un’emozione potente e normalmente nascosta, rivissuta nel dramma tramite un’empatia al contempo intellettuale e viscerale, lo spettatore o la spettatrice può toccare le stesse profondità dentro di sé.

Un'immagine del film "Sinfonia d'autunno" di Ingmar Bergnan (1978) - Web

Facciamo un esempio. Ci accomodiamo davanti alla tv per vedere Sinfonia d’autunno, film di Ingmar Bergman del 1978. Una madre e una figlia si rivedono dopo molto tempo per un incontro progettato per rassicurare entrambe sulla correttezza dei propri doveri tra madre e figlia per potere poi prendersi un altro lungo momento di lontananza l’una dall’altra. Il progetto però naufraga. Dopo una serata di scambi patetici dietro cui aleggia il fantasma del non detto, le due si ritrovano in cucina a mezzanotte: colte da insonnia, entrambe desiderose di mettere a bollire dell’acqua. Là, in camicia da notte, spogliate della loro composta esteriorità, cominciano a chiamare le cose con il loro nome. Eva, la figlia, rivendica la propria affermazione dopo una intera vita di sottomissione alla tirannia della madre travestita da cure materne. La madre (una magnifica Ingrid Bergman nella sua ultima prova d’attrice) manifesta un’insicurezza insospettabile. Questo non è un dramma facile da vedere. Dopo la visione potremmo anche noi avere difficoltà a prendere sonno, in preda a un turbinio di pensieri, con lo stomaco in subbuglio e un’ansia affiorante – ed è così, dice Aristotele, che la catharsis avviene. Nella misura in cui io identifico, sfioro e do un nome alle mie ferite, con i nervi scoperti toccati dalla rappresentazione a cui ho assistito, io permetto a quanto, nelle profondità del mio io, era implicito o represso di trovare una forma esteriore, con un sospiro di sollievo interiore. Si tratta di superare la frammentazione interiore per trovare integrità e quindi libertà.

Tale tipo di purezza viene ottenuta passando attraverso il caos, possedendolo. Questo è il registro dell’esperienza per cui gli autori latini hanno adottato il termine “castità”. Charlton Lewis e Charles Short, nel loro Latin Dictionary, spiegano che l’aggettivo castus nell’Antichità era sinonimo di integer. Il termine in genere era usato “rispetto a se stessi”, non tanto “rispetto agli altri”. In altre parole, la castità era un indicatore di integrità, di una personalità le cui parti si compongono in una completezza armoniosa. Ora, chi non ne vorrebbe un po’ per sé o per le società in cui ci troviamo a vivere? Partendo dall’aspirazione all’integrità – biblicamente espressa nella chiamata di Abramo da parte di Dio: «Cammina davanti a me e sii integro» (hyeh tamim, Gn 17,1) – si tratta di mettere in risalto le dinamiche della “castità” nella vita relazionale e sessuale, discorso su cui, fin dal Medioevo, si è costituito il principale habitat del termine.

Considero la sfida della maturazione alla castità attraverso il prisma di molteplici tensioni. Alcuni trovano la loro strada verso l’integrità senza la sensazione di essere tirati in diverse direzioni. L’esperienza può capitare in diversi momenti della vita in modi differenti. Può esservi gioia in ciò. Può anche esservi una sensazione di conflitto straziante. Come risolviamo il fatto di essere insieme materia e spirito, due dimensioni esperienziali che richiedono diversi tipi di sostegno e direzione? Come ci poniamo entro la complementarietà del maschile e del femminile? Si può trovare un sentiero potenzialmente unificato tra il desiderio di essere liberi e il richiamo dell’ascesi, cioè una educazione consapevole delle nostre vite passionali? Queste sono alcune delle domande che prendo in considerazione. Cerco anche, strada facendo, di chiarire alcune nozioni-chiave che si sono fatte piuttosto opache. Per esempio, che cosa significa parlare di “natura” e definire che cosa è o non è “naturale”? Come intendiamo le affermazioni, talora sconcertanti, della Chiesa su “ordine” e “disordine”?

Chiunque tocchi tali questioni anche con le pinze, oggigiorno si espone a un lancio di uova. E accade proprio così. Tuttavia spero di poter essere d’aiuto nel chiarire il vocabolario necessario per parlare in maniera responsabile di un ambito in cui siamo tutti vulnerabili. Una retorica basata esclusivamente sui sentimenti non funziona. C’è bisogno di un pensiero ponderato, attento, devoto, radicato nella Parola di Dio, la sola che può spiegare noi a noi stessi. La Parola incarnata è l’unica chiave anche per fare pratica di egiziano. (...) Come cristiani, abbiamo parole di cui le donne e gli uomini hanno bisogno per comprendere se stessi in questo contesto. Non abbiamo motivo per non condividerle. (...) Il linguaggio con cui proclamiamo il mistero della fede che tocca la profondità della nostra umanità, la nostra carne, deve essere equilibrato e purificato, liberato da moralismo, rabbia e paura – ecco, deve esso stesso diventare casto.

(Traduzione di Simona Plessi)