Intervista. Casadei: gli ottant'anni di Raoul. E la dinastia continua
«C’è stato un tempo, sa, in cui facevamo pure i funerali. Una signora di Predappio mi chiamò per le esequie del marito, non sapevo cosa suonare e partii con una roba triste intitolata Non voglio perderti. La signora venne da me e mi disse che il morto era una persona allegra: facessi qualcosa coi clarini a tutta… Facemmo la Polka atomica, la gente batteva i piedi! E non finì lì: quando mi avviai, si avviò anche il corteo per il cimitero, e feci in tempo a sentire che dagli altoparlanti del carro partiva il Valzer del cacciatore… ».
È un fiume in piena, Raoul Casadei, oggi splendido 80enne (è nato a Ferragosto, non poteva essere altrimenti) che dopo aver provato a fare il maestro elementare cedette alla passione per la musica sostituendo lo zio Secondo alla guida dell’orchestra di famiglia. E se Secondo Casadei, autore di Romagna mia, aveva inserito nei balli jazz, dixieland e assoli, Raoul vi immise spettacolo e attenzione ai giovani, inventando sia il liscio che un successo mondiale: prima di ritirarsi nel 2003 e passare il testimone al figlio Mirko, che ora mesce il liscio col reggae ed ha aumentato l’attenzione ai testi: nella solarità di una musica per famiglie sempre e comunque in senso più che nobile.
È improbo riassumere la dinastia Casadei, specie Raoul, in poche righe: meglio dare la parola a Raoul stesso, ricordando solo che con lui il liscio è arrivato a Sanremo e Festivalbar e che nel ’73, con Ciao mare, Casadei vendeva trecentomila dischi ed era terzo in hit parade. Non stiamo parlando di musica di serie B, anzi: del resto senza Raoul Casadei crediamo mancherebbe qualcosa, all’estate italiana.
Casadei, abbiamo in mano un Lp del ’75: Orchestra spettacolo Casadei dal vivo all’Arena di Verona, etichetta Ricordi, produzione Roberto Dané...
«…Che ha prodotto De André, Dalla, Venditti. In quegli anni Salvetti mi volle al Festivalbar fra Demis Roussos e McCartney e i nostri dischi vendevano più degli altri Ricordi, De André compreso. Con lui suonavamo e bevevamo champagne, testimonial alle conven- tion Ricordi nel castello di Carimate… Facevo oltre trecento concerti l’anno e al Sud c’erano i finti Casadei: dove non arrivavo io qualcuno diceva di essere mio cugino per fare le serate».
Ha rimpianti, per quell’epoca o per qualche scelta?
«Sono un uomo fortunato, in realtà. Potrei dirle la Ca’ del liscio a Ravenna, incompiuta, volevo farne il locale più grande d’Italia. O i tour in Sudamerica, mi avrebbero strapagato ma ho paura di volare… Anche se là poi c’è andato Mirko. Ma no, sono contento».
Come festeggia, oggi, i suoi ottant’anni?
«Stasera a Santarcangelo l’Orchestra suona col Canzoniere Grecanico Salentino, liscio e taranta, io festeggio fra romagonoli e turisti (il figlio è nel tour del cd Sono romagnolo sino a settembre, nda) ».
Quindi tornerà sul palco: pentito di esserne sceso?
«No! Per la musica ho lasciato la scuola ed ero innamorato dell’insegnamento ai bambini; ho fatto gavetta e fatica, se pensa che i musicisti di mio zio le prime sere mi ridevano dietro; ho combattuto col cuore battaglie stressanti. A un certo punto ho scelto orto, pesca, caccia e bici. E ovviamente la famiglia, ne ho cinque: mia, figli, nipoti. Anche l’Orchestra è imperniata su casa, famiglia, tradizione: questi sono i valori dei Casadei».
Che ricordi ha dello zio Secondo?
«Fu il mio maestro, ruspante ma forte. Quando facemmo il primo lp insieme, La bandiera romagnola, ero ancora maestro: ma ci trasmise Arbore, ci chiamarono oltre il Po per la prima volta, e da lì non spostò nulla senza me. Un giorno mi richiamò da un mese di caccia perché arrivava Cinico Angelini, quello di Sanremo… Con me lo zio vide il sogno prendere corpo».
Romagna mia per lei non è mai stata un peso?
«Certo che sì! Ha fatto ombra a brani come Romagna capitale, schiacciati dal suo piglio nazional-popolare. Altri miei pezzi non hanno avuto la fortuna che meritavano: soprattutto ci ho lasciato le penne con La canzone del mare. Nel ’97 già cantavo di Albania e barconi, ma la gente voleva clarinetto e ballo, e fu lì che iniziai a perdere la voglia».
Eppure il liscio l’ha inventato lei…
«Sì, ho avuto la fortuna di inventare termini. Prima l’orchestra “cooperativa”, poi lo slogan “orchestra-spettacolo” perché parlavo tanto per far appassionare la gente ai brani; poi alle Rotonde di Garlasco, primo locale moderno in Italia, c’erano donne di qua, uomini di là, e io me ne venni fuori nel famoso “Vai col liscio!”, per unire i tavoli».
Che cosa ha aggiunto Mirko, alla storia?
«Freschezza, testi attuali, sensibilità. È venuto su credendo nella religione sociale della famiglia, e penso che porterà i nostri valori lontano».
Quindi il futuro dell’Orchestra, 90 anni nel ’18, è…?
«Spero torni al top. Ci sono troppi Caraibi in giro, e un mestiere di canzoncine che io nemmeno molti anni fa avrei scritto: tutto commerciale, senza identità. Io ero un po’ ruspante, ma non ci sono mai stato a sottovalutare le idee musicali. E dove c’è anima le cose funzionano, anche magari in semplicità come nel nostro caso. Ma negli anni Settanta, quando suonavo pure per gli ambienti bene di Milano, due mie canzoni intitolate Fratello amore e Poeta erano richiestissime: e non erano ballo liscio». ©