Intervista. Renato Caruso, la scienza della musica in una chitarra
Il virtuoso quarantenne chitarrista Renato Caruso
Un’anima divisa in due, quella del 40enne chitarrista e informatico musicale Renato Caruso. Sprigionata dalle poetiche e ispirate corde delle sue chitarre, che suona dall’età di sei anni insieme al pianoforte. Già collaboratore, tra gli altri, di Ron, Alex Britti e Fabio concato, Caruso è l’inventore di uno stile esecutivo tutto suo battezzato “Fujabocla”, a comprendere in ideale simbiosi fusion, jazz, bossa nova e classica. Dopo due sorprendenti dischi ( Aram del 2016 e Pitagora pensaci tu del 2018), Caruso è riemerso da due anni di pandemia con un nuovo album solo guitar (e il suo terzo libro) intriso di enigmatiche e intrinseche domande sul mistero “uomo”, vitale entità che si dimena e dibatte tra spirito e intelligenza, sempre più virtuale.
Si intitola Grazie Turing (distribuito in digitale da Believe) il nuovo capitolo musical-esistenziale della “filosofica” ricerca di Caruso, sviluppata anche stavolta sul doppio crinale musicale e letterario, con il libro # Diesis o Hashtag? a sintetizzare il dilemma che lo attraversa. Il disco diventa così un’ideale colonna sonora per immergersi anche nel libro (edito da OneReed) che reca la prefazione del giornalista scientifico Giovanni Caprara.
«Questo album, dedicato all’ideatore del primo computer, racchiude tutte le sfaccettature della mia anima, i miei studi di informatica, informatica musicale e chitarra classica – spiega Caruso –. Il disco non vuole essere un esercizio di sperimentazione, ma anzi un ritorno all’analogico, alla melodia e armonia minimalista. Le tracce in ordine ricorderanno gli step che ci hanno portato ad avere il computer a casa, partendo dalla filosofia di Aristotele fino ad arrivare a Steve Jobs, per finire con un omaggio ad Einstein e alle scoperte del futuro».
Futuro che Caruso prefigura, nell’ultimo brano intitolato Saluti dal pianeta Terra, come uno scenario apocalittico. «Credo davvero che tra un po’ ci allontaneremo dal pianeta che ci sta accogliendo. Per fortuna la Luna e Marte non sono poi così lontani. Purtroppo però i razzi e i missili proiettati negli ultimi 60 anni nello spazio qualcuno li sta ora dirigendo sugli uomini – dice –. Siamo sulla strada dell’autodistruzione, ma naturalmente speriamo di no. In ogni caso, secondo me, siamo arrivati a un capolinea tecnologico. Non certo a livello di sviluppo, ma sul piano della reale utilità per l’essere umano».
Il termometro di questa sorta di impasse esistenziale sarebbe l’evidente bisogno di una nuova “verità” metafisica e spirituale che nessuna tecnologia può dare. «Questo ce lo dice empiricamente il disagio crescente delle persone, un malessere sempre più accentuato, tanto più acuito in questi ultimi due anni dalla pandemia e ora dalla guerra». Ma nel mirino del musicista e informatico c’è anche Internet, prodigioso quanto illusorio strumento di apparente democrazia.
«Molte persone credono di sapere ormai tutto. In verità si vive in una illusione collettiva e si è semmai dominati da una profonda solitudine oltre che da radicale crisi relazionale. I social e tutto il resto sono soltanto un palliativo, come andare a fare yoga o recarsi dal saggio di turno. C’è qualcosa che non va in profondità, alla radice. Bisognerebbe essere soltanto più essenzialmente spirituali. L’hanno detto anche grandi matematici». Così nel brano La tela di Godel Caruso si riferisce al grande matematico Kurt Godel che nel secolo scorso dimostrò con il suo famoso teorema dell’incompletezza che ci sono delle verità indimostrabili, dando un duro colpo alle pretese dei matematici di poter costruire modelli esplicativi per ogni fenomeno.
«Uno che l’aveva capito molto bene è stato Einstein. Il grande inganno della modernità – aggiunge Caruso – è stato invece illudere gli esseri umani che la scienza e la tecnologia possano dare una risposta a ogni domanda sulla vita e sulla materia. In questo modo nell’uomo finisce col venir meno l’atto di fede. Ma basterebbe anche semplicemente che le persone si ponessero domande sui fatti della vita anziché confidare sempre più in soluzioni tecnologiche e automatiche, come se tutto rispondesse a programmi e applicazioni. Oggi c’è il mito degli algoritmi».
Si potrebbe forse rispondere, con Dostoevski, che sarà la bellezza a salvare il mondo. E la musica è forse la principale di queste bellezze, anche per la sua “divina” immaterialità. «Magari ci saranno nuove frontiere, nuove musiche, nuove poetiche e metodi di produzione – immagina Caruso –. Qualche altra forma di arte, diversa dalla composizione e dall’armonia classica. Con il tramonto della fase elettronica in campo tecnologico la fisica quantistica potrebbe entrare anche in campo musicale. Quanti di luce, combinazioni di intervalli di musica che porterebbe a una sorta di intelligenza artificiale capace di costruire musica in modo automatico attraverso algoritmi».
E c’è anche A ritmo di Algo nel suo disco. Algoritmo, parola oggi molto abusata. «Eppure altro non è che il percorso da compiere per trovare la soluzione a un problema. Ma forse all’uomo serve altro. Il mio disco è così un invito a capire che nella musica c’è un po’ di scienza e nella scienza c’è sempre un po’ di musica. Anche quella dell’anima».