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Il caso. Carrère: come si può processare l'orrore del Bataclan?

Maurizio Cecchetti mercoledì 15 marzo 2023

Emmanuel Carrère

L’ultimo libro di Emmanuel Carrère ha un titolo che potrebbe sembrare il nome in codice di un ordigno nucleare, oppure un nuovo profumo esotico a base, chessò, d’incenso: V13. In realtà è la sigla di un giorno infausto per la Francia, un giorno di quasi otto anni fa. Venerdì 13 novembre 2015. Poco dopo le 21, in una Parigi dove moltissimi si svagano senza pensare alle supertizioni sul numero 13, un commando di terroristi islamici si fa esplodere presso lo Stadio nazionale, nel quartiere di Saint Denis. Un morto e dieci feriti gravi. Un quarto d’ora dopo, armati di Ak-47, ovvero di kalashnikov, altri uomini su una Seat con targa belga, percorrono le strade tra il 10° e l’11° arrondissement sparando e uccidendo senza pietà trentanove persone e ferendone in modo grave un’altra trentina. Uno dei terroristi, Brahim Abdeslam, si fa esplodere in un caffè di Boulevard Voltaire ferendo una dozzina di persone. Altri due complici fuggono, fra cui suo fratello che avrebbe dovuto farsi esplodere con lui. Ancora dieci minuti e si realizza la strage del Bataclan – una sala spettacoli sempre nell’11° arrondissement con centinaia di persone che ballano, consumano cocktail vari, fumano e ascoltano musica –: un terzo commando apre il fuoco sulla gente fuori e dentro il locale. Sparano a freddo sulle persone (come in passato i fondamentalisti islamici sgozzavano con ebbra e gelida ferocia persino i bambini: si ricorderanno le stragi a Bentalha in Algeria nel settembre del 1997). È l’attentato più grave, muoiono 90 persone e ne restano ferite alcune centinaia.

Il libro di Carrère esce ora in traduzione da Adelphi (pagine 268, euro 20). È il racconto, giorno dopo giorno, del processo ai complici ancora vivi (gli attentatori sono stati uccisi tutti dalla polizia). In una ricostruzione lunga nove mesi, durante i quali ogni mattina si è recato in tribunale, Carrère segue le deposizioni, gli interrogatori e i controinterrogatori agli imputati per le stragi del V13 e le contiguità con altri atti terroristici che si sono riprodotti lungo due anni di lacrime, sangue e brandelli di corpi umani sparsi dalla vedetta jahidista per lavare le secolari colpe dell’Occidente (e per annichilire le coscienze e indebolire le capacità di giudizio dei singoli cittadini). Il libro esprime anche il bisogno nazionale di una voce che elabori nella scrittura le domande che hanno accompagnato quei mesi dove lo stesso autore si è trovato a empatizzare con le vittime, a piangere con loro pensando al dolore dei padri e delle madri, dei fratelli e degli amici di quelli che sono stati assassinati. C’era stato Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, quindi il V13, poi la strage a Bruxelles, in Belgio nel 2016, e altre ancora, tutte marcate dalla stesso odio, «un periodo parossistico di attentati» che sembra finire nel 2017. Adesso, cresceva il bisogno di giustizia, di dare conto di qualcosa che era chiuso sotto una cappa di silenzio luttuoso, urgenza non soltanto di medicare le fe-rite ancora aperte, ma di affrontare una discesa verso il fondo dell’inferno per capire come e quando tutto questo ebbe inizio. Gli imputati sostengono: quei morti sono il frutto del vostro colonialismo. Si evocano luoghi e paesi: Tunisia, Egitto, Siria, Algeria. E si seguono le piste dei terroristi molto prima e poco prima degli attentati; si ripercorrono deposizioni di testimoni, sopravvissuti, parenti delle vittime; quelle degli imputati: a deporre sono alcuni che hanno avuto a che fare con gli esecutori materiali delle stragi, anche se non si sono fatti esplodere o non hanno premuto grilletti; sono considerati complici oppure qualcosa di meno (alcuni si dichiarano innocenti).

Confesso che l’impressione di rigorosa e circostanziata ricostruzione con cui Carrère riassume i dati che emergono in questo lungo stillicidio del dolore, mi sembra tutto tranne che oggettiva. Più volte l’autore afferma di voler capire: ascolta le voci perché, sembra pensare, non mentono. In realtà, scruta gli imputati negli occhi, e ha anche lui i suoi pregiudizi (chi non li ha?). Questo libro sembra la messa in scena di ciò che vorrebbe essere il momento della prova. Salta fuori ogni tanto il fantasma di Auschwitz nei ragionamenti di Carrère; anche con il solito schema: gente apparentemente normale, che tornava a casa dai propri figli e ascoltava musica sublime, ma che fino a poco prima nei lager aveva partecipato alla procedura dello sterminio. Come si può continuare a vivere dopo essersi macchiati di quell’orrore? Vale anche per i jihadisti? Ma sono logiche molto diverse. Là un sistema ben oliato, una macchina di massa; qua alcuni musulmani radicalizzati, magari convertiti nelle scuole jihadiste, che uccidono innocenti solo per replicare a qualcosa accaduto alle generazioni precedenti. Odio retrodatato e nemesi generazionale? Uno degli imputati, Salah Abdeslam, ribatte che la giustizia della “spregevole Francia” non ha per loro alcun valore. Carrère evoca la faina Jacques Vergès, l’avvocato di Klaus Barbie: quel processo divenne un processo al nazismo, un processo esemplare. La Gestapo torturava e uccideva mentre occupava la Francia? Ma a sua volta la Francia ha torturato e ucciso in Algeria, sostenne Vergès (è la cosiddetta “difesa di rottura”). Sembra la spiegazione adottata anche da Abdeslam per il suo caso.

Un processo, disse Vergès, «è un luogo magico, è una scatola a sorpresa». Lo è certamente per uno scrittore, e Carrère è uno di quelli più in vista nella Francia di oggi; non è un mito “negativo” come Houellebecq, ma appartiene alla schiera di autori che indagano la realtà quotidiana, i suoi paradossi, alla ricerca di spiegazioni. Che non troverà. Quanto meno in questo processo che lungo i mesi di snervante ascolto dell’orrore è lievitato come un grande spettacolo fino a essere definito “il processo del secolo”. «Quella carogna di Vergès»: lo definivano così gli avvocati della parte civile, ma lui confessa: «Non posso sopportare che si umili un uomo. Non posso sopportare che un uomo solo, foss’anche il peggiore delle canaglie, sia ingiuriato da una folla di linciatori ». Carrère lo cita, la pensa così anche lui? Eppure il “suo” processo è lontano anni luce dalla questione posta da Vergès, il quale si troverebbe certo più a suo agio con Marcel Jouhandeau, per esempio quello dei Tre delitti rituali. Carrère è di una generazione per cui scrivere non può avvenire dimenticando che viviamo nella “società dello spettacolo”. Tutto lo diventa, il fatto più straziante e disumano, la guerra e allo stesso modo una manifestazione LGBT, le elezioni oppure un crimine seriale. Carrère sa bene che non può evitare, col suo racconto, di creare personaggi (parlando del processo dice che gli interessa esprimere il «punto di vista di tutti gli attori...») e si lascia intenerire solo da quelli col cuore straziato dal senso di colpa di essere vivi al posto dei propri figli… Ascoltiamo persone che parlano apparentemente con le loro voci, ma è il ventriloquo Carrère che stenografa il loro dolore. E lo ricompone. Ma con maggiore opacità di quella che il processo stesso può esprimere senza una ricerca formale che nel libro è evidente.

Carrère dedica una pagina a descrivere i pubblici ministeri: una donna, affiancata da tre uomini, di età inferiore ai quarant’anni. La donna è Camille Hennetier: «bruna, elegante, emana una lucidità senza freddezza: quando si alza per parlare tutti ascoltano» e poi Carrère aggiunge: «Si sarà capito che sono un fan di Camille Hennetier». Alla fine dello scorso anno la Hennetier è stata posta a capo del Service national du renseignement pénitentiaire (SNRP), un organo della sicurezza nazionale che contrasta il terrorismo e la criminalità organizzata partendo dalle carceri. Ne ascolta gli umori... Carrère cita, a questo proposito, Hugo Micheron, uno studioso del jihadismo, il quale sostiene che le università del terrorismo sono i bracci riservati delle carceri. Il prossimo capo del jihadismo da dove verrà? Secondo Micheron da una prigione francese. Ed ecco che alla fine del 2022 la Hennetier va a dirigere un organo del servizio informativo penitenziario nazionale, mentre chi l’ha preceduta, Charlotte Hemmerdinger, magistrato e prima donna a gestire un servizio di informazioni dello Stato francese, dall’11 giugno scorso è salita al grado di consigliere di Giustizia del ministro degli Interni Gérald Darmanin.

Insomma, il processo del Bataclan e tutto ciò che gli ruota attorno ha risvegliato, sia pure senza troppi clamori, lo spirito nazionale francese che, come già scrisse Michelet due secoli fa, è qualcosa che supera anche l’opposizione dei colori politici e permea i corridoi delle istituzioni poliziesche. È forse questo il limite intrinseco del libro di Carrère: ci dà, sotto la maschera del cronista giudiziario, un resoconto dell’orgoglio giustizialista della Francia che viene da lontano, dalla Rivoluzione francese. Con qualche cedimento all’estetica dell’orrore, come quando ripete più volte nel libro l’espressione “coriandoli di carne umana” prodotti dell’esplosione in cui si è immolato uno degli attentatori. Fa talmente orrore, questa espressione, per quella sfumatura di frivolo che ha la parola coriandoli, che basta citarla una volta sola.