Milano. Carlo Carrà, profeta da riscoprire
Alcuni grandi disegni per «Giustiniano libera lo schiavo» (1933)
Carrà è un paradosso della critica. Pur avendo camminato a fianco dei maggiori artisti del primo Novecento, talvolta anticipando anche ciò che stava per accadere, il suo nome, pur grande, si trova sempre nel cono d’ombra dei più celebrati Boccioni, Balla, De Chirico, Sironi, e si deve alla costanza del figlio Massimo se periodicamente è stato possibile ammirare opere che sono tra le più importanti dell’arte italiana del secolo scorso e quindi tra le più importanti tout court di quel secolo, se si considera che nel periodo nel quale Carrà dava il meglio di sé, cioè fino a tutti gli anni Trenta, la nostra arte fu un vertice assoluto in Europa sia per ampiezza di talenti sia per risultati raggiunti. La mostra di Palazzo Reale, curata da Maria Cristina Bandera con l’aiuto del nipote dell’artista, Luca Carrà, e corredata da un catalogo edito da Marsilio, è tra le più ampie retrospettive allestite sulla sua opera, ma non si può dire che ne sveli lati segreti o poco conosciuti. Non si spiega, per esempio, perché manchi l’importante e raffinatissimo e ieratico Le figlie di Loth, del Mart di Rovereto che pure ha prestato altre opere, dove la vena metafisica di Carrà prende una strada che anticipa il Realismo Magico di molta arte italiana successiva. Grave mancanza. E qui si viene a un altro discorso che riguarda appunto il “paradosso” Carrà, un artista “patriarca” che per il discorso critico e per il pubblico italiano risulta una specie di comprimario, di artista presente a tutte le maggiori svolte dell’arte della prima metà del Novecento, uno che c’è e di cui non si potrebbe negare l’importanza, ma che viene sempre un po’ commentato sottovoce. Ricordo quando Edoardo Persico in una conferenza all’inizio degli anni Trenta rese omaggio a Carrà e il tono era quello reverenziale che si deve a un maestro di pensiero oltreché dell’arte. Questo rispetto verso il pittore era dettato anche dalla sua qualità intellettuale che lo aveva portato a scrivere saggi come Parlata su Giotto dove attraverso le idee si veniva a stabilire, sulla nuova rilettura del padre della pittura italiana antica in chiave prospettica e cubizzante, la liaison con Longhi che sempre avrà parole elevate per Carrà. La mostra si vede con contemplativa ampiezza di sguardo grazie all’allestimento sobrio e ostensivo per autorevole e pacata monumentalità. Il che è merito non da poco mentre negli allestimenti s’impone spesso il narcisismo degli architetti. Nelle stanze, con le opere messe a parete secondo un ritmo ben cadenzato, al centro dello spazio vi sono ampie vetrine per i materiali critici e le testimonianze storiche. A conferma di quanto ho affermato all’inizio, ovvero la “centralità marginale” che Carrà occupa nei pensieri di critici e spettatori, la mostra di Palazzo Reale è fatta di moltissime opere di proprietà privata, e alcune di importanza capitale per la storia dell’arte del Novecento.
È difficile comprendere perché lo Stato italiano che ogni tanto si lancia in qualche impresa spericolata e onerosa come il celebre acquisto del Crocifisso Gualino attribuito a Michelangelo, ma con scarsa probabilità, pagandolo milioni di euro, non si preoccupi invece di assicurare a un museo un’opera come Il pino sul mare del 1921, che è di proprietà privata. Uno di quei capolavori che giustificano la vocazione dell’istituzione museo come luogo dove la gente può recarsi per imparare qualcosa anche sulle proprie radici e la propria identità nazionale. Negli anni Dieci Carrà ha dato un degno contributo al Futurismo e alla Metafisica. Strana appartenenza (anche di altri suoi colleghi) a due ambiti, l’uno disgregante l’altro costruttivo: già Boccioni con il ritratto della madre intitolato Materia aveva fatto capire che era prossima l’apocalisse; ma il “richiamo all’ordine” successivo non fu una via alla restaurazione, bensì il momento di stasi dove l’hegeliano “distruggere per conservare” configura l’approdo ciclico dell’idealismo dopo la rivelazione dello spirito nella sua nuova forma.
Carrà nel 1919 con Le figlie di Loth chiude la fase di uscita dal Futurismo, segnata dalla discontinuità formale dell’“Antigrazioso” (anche qui molte opere di collezione privata, cioè per pochi intimi, come Il fanciullo prodigiodel 1915 o I romantici e Ricordi d’infanzia del 1916), che si era solidificata, per un istante e grazie all’incontro nel 1917 coi fratelli De Chirico a Ferrara, nella Metafisica. Ancora opere notevolissime come Il gentiluomo ubriacoo Penelope del 1917 ovvero Natura morta metafisica del 1919, di proprietà privata. Che cosa fu la Metafisica per Carrà? Io credo che giochi nella forma del conatus di ciò che il mondo ha prodotto con la Grande Guerra (che lo stesso Carrà aveva appoggiato, come interventista). La Metafisica non è un “ritorno all’ordine” ma la rappresentazione dell’uomo ridotto in frantumi senza vita, reliquie della distruzione ricomposte come idoli oscuri in stanze private o angoli di città spettrali; è la reazione eroica e malinconica dell’artista dopo l’immane carneficina. Le figlie di Loth sono invece un distillato “gentile”, lirico e simbolico del mondo che deve cambiare. Ma cambierà in quella impenetrabile corporeità del colore che Il pino sul mare riassume in una immagine dove l’albero solamente ha qualcosa di umano e di divino al tempo stesso, come quelo al centro della scena nel Godot di Beckett. Il richiamo a Giotto (vedi la montagna con la porta che sembra in tutto e per tutto quella di un sepolcro) è parodico ma reale: unici tocchi informi e anarchici nella stesura delle superfici i ciuffi d’erba che sono semplici lacerti di un pennello che ha rinunciato a farsi mezzo di pittura per lasciare spazio a una mistica della rovina riparata da una forma essenziale e rapsodica. In questo o in opere come Vele nel porto del 1923, gli orizzonti sono impenetrabili: come l’infinito (superficie che non può essere oltrepassata perché è sempre “al di là” della metrica umana). In questi anni il realismo magico di Carrà si nutre di pensieri romantici, vedi Sera sul lago del 1924-28 dove le brume salgono e si stringono come un occhio-diaframma che attenua le forme e i colori di ciò che sta ai margini. In Festival II la semplificazione dei contorni che definiscono le figure umane e del bue in primo piano ha la sprezzatura che si ritrova anche in certe silhouettes sironiane; e sironiana sarà, del resto, la ricerca della figura-monumento nei grandi disegni di studio per i dipinti, di dieci anni successivi, che raffigurano il Giudizio universale e di Giustiniano che libera lo schiavo( 1938-39).
Come si muove Carrà in quel decennio che anticipa un’altra guerra mondiale? È arcaico e primitivo ma anche popolare come già nella Casa dell’amore del 1922, che forse risente di Rosai, o come nell’Attesa del 1926. Popolare, una misura che cercava fin dalla forma sommaria e bamboccesca dell’“Antigrazioso”; e negli anni Venti e Trenta la pratica con caparbietà quasi naïve; però nel 1929-32, coi Nuotatori e un capolavoro come Estate sembra tornare alla grande tradizione dei primitivi italiani. Tutto si tiene e il cerchio, per così dire, quadra quando, un decennio dopo, nei dipinti del Giudizio Universale e di Giustiniano la sua riflessione formale sembra comprendere persino il primitivismo spirituale di Tullio Garbari e quella sua chiarità senz’ombra che aveva incantato Persico. Ma a proposito di popolare ecco che nella Partita di calcio del 1934 e nei Pugili del 1933-36 anticipa, come suo solito, un discorso sul “realismo” che poi connoterà la poetica letteraria, per esempio, di Giovanni Testori e non solo. Tuttavia senza liberarsi mai dell’ipoteca dell’antico che aveva assimilato con grande intelligenza. Gli anni del dopoguerra e fino a buona parte dei Cinquanta sono un periodo stanco, dove Carrà non riesce più a rinnovarsi e a dare la zampata del leone come ha fatto nei suoi periodi migliori. Poco male, tutto ciò che aveva da dire lo aveva già detto in grande fino agli inizi degli anni Trenta. C’è molto ancora da lavorare sul piano della critica e della conoscenza della sua opera.