Il libro. Morandi: «Quel Dalla di “Gesubambino” con Paola Pallottino»
Paola Pallottino e Lucio Dalla al lavoro, Bologna 1971 / Walter Breveglieri
Scrigno di aneddoti il libro Paola e Lucio - Pallottino la donna che lanciò Dalla del giornalista Massimo Iondini (Edizioni La Fronda. Pagine 118. Euro 10,00). Un libro (uscito il 4 marzo e disponibile su Amazon in e-book e in versione cartacea) nato da una serie di incontri avvenuti nella casa bolognese di Paola Pallottino che, esattamente cinquant’anni fa, nell'aprile del 1970, firmava il suo primo testo per Lucio Dalla. Si trattava del brano Orfeo bianco uscito come lato B del 45 giri Sylvie che inaugurava la breve ma intensa collaborazione (pressoché ignota al grande pubblico) con l'allora 27enne cantante bolognese, finora apprezzato soltanto dalla critica e dagli addetti ai lavori. Un sodalizio cruciale, quello con Paola Pallottino, per la carriera di Dalla, che aprì anche la strada alla sua con il poeta e intellettuale bolognese Roberto Roversi, prima che Lucio diventasse definitivamente autore sia delle musiche che dei testi dal 1977, a partire cioè dall'album Come è profondo il mare. La giovane Paola lavorava come illustratrice di fiabe quando decise di mettere la sua creatività al servizio dell’universo artistico in formazione di Lucio. La “strana coppia” generò l’eterna quanto anagrafica Gesubambino (censurata al Festival di Sanremo del 1971 e diventata 4 marzo 1943), trampolino di lancio di Dalla, a cui seguirono capolavori come Il gigante e la bambina, Un uomo come me e Anna Bellanna. Otto canzoni uscirono dalla ditta Pallottino-Dalla e in questo libro di Iondini vengono rivisitate in altrettanti capitoli. Un capitolo a parte, il nono, è dedicato a una “perla” sconosciuta: la parzialmente inedita La ragazza e l’eremita, canzone che viene qui svelata per la prima volta nella versione musicale di Dalla. Curiosamente, un quarto di secolo dopo, il testo di questa canzone attrasse anche Angelo Branduardi che mise anch'egli in musica La ragazza e l'eremita, presente nell'album Domenica e lunedì. La testimonianza esclusiva di Branduardi accompagna il libro di Iondini insieme a quelle di tanti altri colleghi e amici di Lucio che hanno condiviso il suo iniziale percorso artistico agli inizi di quei decisivi e altalenanti anni Settanta. Racconti, rivelazioni e aneddoti svelati, oltre che dalla stessa Paola Pallottino e da Gianni Morandi (di cui pubblichiamo a seguire la prefazione al libro), da Ron, Gino Paoli, Renzo Arbore, Maurizio Vandelli, Maurizio De Angelis, Vince Tempera, Armando Franceschini e frate Bernardo Boschi, il domenicano padre spirituale di Dalla, che il 4 marzo di otto anni fa pronunciò in San Petronio l'orazione funebre del grande cantautore in una basilica gremita e in una piazza Maggiore traboccante di commozione e infinita gratitudine.
Prefazione di Gianni Morandi
All’inizio andavo davvero a cento all’ora, fin dalla partenza della mia carriera. Proprio come diceva la canzone d’esordio, in quel lontano 1962. Due anni dopo esordiva come cantante anche Lucio Dalla, che aveva un anno più di me e veniva dal jazz. Noi due bolognesi ci eravamo trovati per la prima volta insieme a un Cantagiro, nel 1964. Lucio, scoperto e prodotto da Gino Paoli, debuttava con Lei (non è per me), il suo primo 45 giri, la cover di un brano soul-blues americano. Era arrivato quasi ultimo nel girone B, mentre io ero primo nel girone A con In ginocchio da te. Eravamo già molto amici. Ogni giorno aveva qualcosa da farsi prestare, una volta non sapeva cosa mettersi e gli avevo dato una mia camicia. Poi non sapeva mai come presentarsi al pubblico. Durante una tappa aveva deciso di tagliarsi la barba e non sembrava più lui. Aveva metà faccia bianca e metà nera perché eravamo in estate ed era abbronzato. Scriveva tante canzoni, ma non riusciva a sfondare.
Quando buttava giù qualcosa me lo faceva ascoltare e la sua prima canzone cantata da me è stata Occhi di ragazza, nel 1970. Al mio produttore, Franco Migliacci, però non piaceva: diceva che era troppo popolare e che sembrava uno stornello. Invece quella canzone era solare e autentica, bellissima. È nel mio repertorio da cinquant’anni ed è una delle più amate. Io allora ero al culmine del successo, Lucio invece arrancava, ma aveva la stima di tutto l’ambiente. I discografici e la critica sapevano riconoscere il suo talento. Aveva delle intuizione musicali straordinarie, ma era troppo avanti per il pubblico. Anche per quel modo di cantare troppo originale, che gli derivava dal jazz. Lucio era anzitutto un grande musicista e io gli invidiavo questa sua straordinaria capacità di suonare.
Poi, come capita spesso nella vita, le cose si sono capovolte. Nei primi anni Settanta aveva cominciato a circolare un’aria nuova: i gruppi e la musica internazionale, i cantautori, la canzone impegnata. Io però tutto questo non lo stavo capendo. Mi sono poi reso conto che quello che facevamo noi cantanti in voga negli anni Sessanta non era più in sintonia con i tempi che stavano cambiando. Anche Lucio era fuori tempo all’inizio, ma lui era in anticipo e in ogni caso era un talento a sé, trasversale, al di là dei generi. Poi finalmente fece l’incontro giusto, con una signora che illustrava libri per bambini e scriveva originalissimi testi.
E proprio con un testo di Paola Pallottino fece centro, a Sanremo. Lui nel 1971 esplodeva e io invece cominciavo il mio declino. Sembravamo in altalena, io e Lucio. Mentre saliva lui, scendevo io. Poi però Lucio ha un po’ allungato i tempi del successo. Non si decideva a fare il passo che doveva fare. Ennio Melis, il grande capo della Rca, glielo continuava a dire. Ma lui per tutta risposta si mise a fare tre dischi con Roberto Roversi, prima di capire e decidersi ad abbracciare il suo vero destino: fare tutto da solo. Era come se non volesse mai credere in se stesso fino in fondo. Ma è chiaro che delle esperienze con Paola Pallottino e Roberto Roversi ha fatto immensamente tesoro.
Quando Lucio spicca il volo nel ’77 e nell’80 diventa il numero uno, io sono ormai quasi sparito nel nulla, sono finito nel dimenticatoio discografico e dei programmi della televisione. I nostri destini si erano completamente rivoltati. Ma non avevamo mai perso i contatti, i nostri rapporti non si erano mai interrotti. Io mi ero messo a studiare contrabbasso al conservatorio e Lucio continuava a dirmi che dovevo rimettermi in pista. Era sempre pronto a difendere gli amici. Facemmo anche un tentativo al Festival di Sanremo del 1980 con la canzone Mariù scritta con Ron e De Gregori, ma non erano i tempi giusti per me. Io ho di fatto avuto due carriere diverse: una dal 1962 al 1971/72 e l’altra dall’81/82 in poi.
Quegli otto anni in totale silenzio sono stati comunque una fortuna perché sono cresciuto, ho riflettuto e ho reimparato a cantare al conservatorio con una insegnante di canto corale che con Bach e tutti i grandi della musica mi ha aperto un nuovo mondo. Sotto la cenere covava però il mio ritorno. E ci è voluto proprio un pezzo come Uno su mille nell’85 per poter ripartire. Poi due anni dopo sono tornato a Sanremo con Ruggeri e Tozzi ed è arrivata la definitiva svolta. Ad aspettarmi non poteva che esserci Lucio, che mi disse: ecco, è arrivato il momento di fare una cosa insieme. Quel tour meraviglioso nell’88/89 resterà sempre una pietra miliare della mia e nostra carriera. Un segno del destino, un nostro ideale “cantagiro” in cui io non era primo e lui non era ultimo, né viceversa. E Occhi di ragazza potevamo cantarla insieme. Il nostro sodalizio è durato fino a quando lo obbligai a venire al Festival di Sanremo nel 2012, che io conducevo. Lui però non ne aveva nessuna voglia e si inventò allora di fare il direttore di orchestra per la canzone di Pierdavide Carone.
Poi io e Lucio ci eravamo visti a fine febbraio allo stadio “Dall’Ara”, ma non stava molto bene. Il Bologna perse con l’Udinese uno a zero e Lucio se ne andò via prima della fine, ma mi disse di andarlo a trovare a una data del tour europeo che stava per cominciare. Mi propose Francoforte, dove avevamo suonato anche nel nostro tour. Arrivò invece quella telefonata di Bibi Ballandi, che la mattina del 1° marzo era appena stato chiamato da Marco Alemanno da Montreux, la patria del suo amato jazz. Lucio nell’ultimo periodo aveva una travolgente inquietudine che lo ha accompagnato fino alla fine. Faceva tutto, non riusciva a dire di no a niente e a nessuno. Sembrava presagire, sembrava voler abbracciare tutto insieme. Forse anche per il fatto di non avere avuto una famiglia propria, una famiglia vera. Come quel Gesubambino senza padre di Paola Pallottino, a cui il destino ha voluto mettere la sua data di nascita.