Storia dell'arte. Le verità ritrovate su Caravaggio
Caravaggio, "Le sette opere di misericordia", particolare
Negli ultimi decenni, almeno gli ultimi tre, Caravaggio è stato l’occhio attorno al quale si è prodotto una sorta di maelström che ha coinvolto storici, critici, restauratori, personaggi della cultura, ma anche musei, gallerie, mercanti, case editrici, teatri, cinema, fumetti. E risucchiato nel vortice milioni di visitatori laddove ogni volta veniva annunciata con toni sensazionali una mostra irripetibile, una scoperta, la semplice presenza, magari da secoli, in un museo di un suo dipinto appena restaurato. Ogni occasione è stata buona per gridare la grandezza del nome nell’intera storia umana. C’è qualcosa di più di una moda legata a un oggetto artistico che incanta e seduce. Caravaggio è bello, è buono, è vero. La sua è una verità umana, non intellettuale, abbastanza capiente da contenere il bene e il male, il bello e il brutto, l’ironia e l’arroganza, la compassione e l’iniquità. La sua sorte maligna a Porto Ercole la dice lunga e rappresenta l’epilogo annunciato di come aveva vissuto e dipinto, sempre in lotta con se stesso (alla fine, pare confessasse che i suoi peccati erano tutti mortali). Caravaggio è l’emblema della vita allo stato puro, che in sé contiene tutti gli opposti.
Tre decenni di scoperte documentarie, di nuove attribuzioni, alcune fasulle, altre non del tutto convincenti, l’emergere di copie di alcuni dipinti importanti che si candidano a essere riconosciute autentiche, e magari anche la prima versione di due o tre che sono già prese in considerazione. A questo emergere di documenti, testimonianze, opere, questioni discusse ormai da tempo, sono dedicati due corposi tomi di recente pubblicazione. Uno, Michelangelo Merisi da Caravaggio della storica dell’arte Stefania Macioce edito da Ugo Bozzi (pagine 746, euro 100) è il regesto di «documenti, fonti e inventari 1513-1883» che la storica romana aggiorna per la terza volta in vent’anni. L’altro, anche questo frutto di ricerche recentissime, è Cantiere Caravaggio di Alessandro Zuccari, edito da De Lucapagine 432, euro 38), che raccoglie studi su «questioni aperte, indagini, interpretazioni», che vanno ad aggiungersi ai volumi che lo storico dell’arte ha dedicato al Merisi nell’ultimo decennio: Caravaggio controluce (2011) e Il giovane Caravaggio (2018).
Si tratta di due utili contributi per riflettere sullo stato della ricerca storica su Caravaggio, dunque rivolti agli specialisti, ma anche con aperture su questioni che rettificano alcune conoscenze della biografia del pittore.
Macioce nell’introduzione rileva alcuni dati che aiutano a comprendere le condizioni difficili in cui si trova oggi ogni studioso, in particolare se giovane, che si avvicini al pittore lombardo: la Bibliotheca Hertziana di Roma, forse la più fornita di bibliografia caravaggesca, ha catalogato cinquemila titoli sul pittore. La nuova edizione del regesto (la cui prima uscita è del 2003) integra quella precedente (del 2010) con 106 nuovi documenti, 22 fonti e circa 60 inventari: l’obiettivo è «radunare in un corpus tutte le informazioni relative alla vita di Caravaggio, alle sue opere e al suo ambiente». Una svolta nelle conoscenze storiografiche si ebbe con i nuovi documenti emersi dall’Archivio di Stato, presentati nella mostra del 2010, che gettavano luce sui primi anni romani. Come ricorda anche Zuccari nel primo capitolo del suo libro, documenti e studi recenti invitano a posticipare l’arrivo del Merisi a Roma dal 1592-93 (l’ultima traccia in Lombardia risale al luglio 1592), al 1594-95. Un punto decisivo di svolta fu la scoperta dei documenti del processo del 1597 sul “caso del ferraiolo”, un mantello che Caravaggio trovò in via delle Coppelle e portò il giorno dopo a un certo Pietropaolo Pellegrini aiuto barbiere nella bottega di Luca Benni. Il tribunale, dopo averlo arrestato, interrogò il garzone per saperne di più sul pittore: evidentemente era tra i sospettati di aver partecipato all’aggressione del musico Angelo Tanconi che fece perdere al proprietario il mantello, il quale poi sporse denuncia contro ignoti (nel regesto della Macioce, tutti i documenti fondamentali). Il garzone dichiarò di aver conosciuto Caravaggio durante la quaresima del 1596 nella bottega del pittore Lorenzo Carli, di averlo poi incontrato «parecchie volte», e ne dà anche una descrizione sommaria: «Questo Michelangelo pittore è di età di 28 anni in circa, di giusta statura più presto grande che altrimenti grassoccio (…) ha un poco di barba negra ma poca, veste di negro, di mezza rascia negra, ma non troppo bene in ordine et alle volte va bene in ordine et alle volte no, et porta in testa un cappello di feltro negro», aggiungendo che parlava «alla lombarda» (anche il garzone era di origini lombarde). Inoltre, come sottolinea Zuccari, il pittore era andato più volte dal barbiere per «tosarsi» e per curare una ferita, «una grattatura a una gamba», che Benni definisce una «forcatura», e questo sembra confermare quanto dice Giulio Mancini sull’incidente occorso a Caravaggio mentre era a bottega dal Cavalier d’Arpino, ovvero di essere stato ferito a una gamba dal calcio di un cavallo durante una lite col palafreniere del Cavaliere, e di essere stato quindi ricoverato all’Ospedale della Consolazione.
Dai documenti emergono altri chiarimenti su quegli anni: abitò per un po’ a casa di monsignor Pandolfo Pucci, ma anche a casa di qualche altro pittore, nell’area di Campo Marzio dove si concentravano le botteghe di vari artisti (si può immaginare l’antagonismo, per accaparrarsi ordini e commesse); era anche zona d’osterie con conseguenti risse o peggio. Caravaggio fece amicizia con Prospero Orsi che, sostiene Celio nelle Vite (ritrovate qualche anno fa), gli fece conoscere il cardinal Del Monte convincendo questi ad affidargli l’esecuzione dei dipinti della Contarelli che furono la rivelazione in grande stile del Caravaggio. Zuccari ipotizza che Orsi potrebbe averlo ospitato tra l’estate del 1596 e la primavera del ’97.
Se la prima testimonianza della sua presenza a Roma risale dunque al 1596, dove si trovava nei tre anni precedenti, dopo essere venuto via da Milano, a causa forse, come scrissero sia il Celio che Mancini e Bellori, per un fattaccio (un omicidio? Ma gli archivi, rileva Macioce, non ne hanno traccia). Forse, come pensava Bellori, si mosse verso Venezia. Notazione importante tanto più oggi, quando la pista veneziana è, assieme a quella degli anni lombardi, considerata la più urgente da battere.
I documenti confermano la rilevanza della protezione che Michelangelo ebbe dalla marchesa Costanza Colonna, sia quando nel 1606 scappò da Roma per sfuggire alla giustizia papale verso Napoli dopo l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, sia, anni dopo, quando scappò da Malta dopo che i Cavalieri lo avevano incarcerato e radiato dall’ordine (ancora forse per aver ferito uno di loro). Ma è possibile che i persecutori di Caravaggio possano essere altri – come osserva Macioce, è abbastanza improbabile che siano stati i Cavalieri di Malta, che avevano perso interesse per lui dopo averlo radiato dall’ordine –, e che la sua fine s’intrecci con la realpolitik dell’epoca.
Un capitolo del libro di Zuccari è dedicato alla “questione del disegno”. Ormai è chiaro che si tratta di un mito ereditato dalle fonti e riproposto da un saggio di Roberto Longhi del 1914 su Orazio Borgianni, laddove scrive: «Caravaggio reusciva a ripudiare completamente il valore disegnativo che ogni oggetto aveva assunto nella tradizione secolare dei Fiorentini». La conclusione denota, quantomeno, il precoce “pregiudizio” longhiano. Ma ancora nel 1991-92 Mina Gregori si allineava a questa idea, sottolineando che la ragione del presunto rifiuto del disegno era che «l’elaborazione disegnativa perveniva a idealizzare il dato naturale» e per questo Caravaggio «aveva dipinto quasi esclusivamente dal vero e dal modello», praticando invece incisioni e abbozzi sull’imprimitura delle tele. Ma le indagini radiografiche hanno chiarito che questa posizione è frutto di una interpretazione semplificata di quanto scrisse nel 1604 Karel van Mander il quale, osserva Zuccari, non dice che evitava il disegno bensì che «intuisce la messa a punto di un metodo nuovo (…) che peraltro non conosce (…) perché il pittore non ammetteva nel suo studio» che poche e fidate persone. Si tratta insomma di rileggere bene le fonti, come quella di Vincenzo Giustiniani, grande estimatore di Caravaggio e collezionista, secondo cui «la concezione del disegno [del pittore lombardo] non è più solo quella di matrice fiorentina che, con Vasari, nel fa il “padre” di tutte le arti». Radiografie e altre indagini, al contrario, hanno rivelato in alcune opere di Caravaggio l’esistenza dell’underdrawing, il disegno preparatorio: già nel Ragazzo col cesto di frutta, nel Bacchino malato, o nel Riposo durante la fuga in Egitto. Ma anche nei dipinti nella Contarelli, in particolare, dopo le indagini del 2009, il Martirio di san Matteo (la cui prima impostazione rivela sullo sfondo un’architettura derivata da un tempio di Donato Bramante raffigurato in una incisione di Bernardo Prevedari). Forse disegnava col pennello, ma è sicuro che disegnava; d’altra parte anche le tanto celebrate incisioni sulla preparazione della tela, con cui delimitava figure e spazi, non sono – come poteva essere evidente al buon senso – un suo marchio di fabbrica perché, nota finalmente Zuccari, «le analisi più recenti hanno chiarito che non appartengono a un metodo esclusivo del maestro milanese», anzi fanno parte di una pratica esecutiva fondata su progetti grafici «tutt’altro che sommari e improvvisati». Ovvero, erano frutto di una rimeditazione dei classici e del Rinascimento. Zuccari studia anche il rapporto fra luce e disegno nella Vocazione di san Matteo e introduce quindi l’importanza che Tintoretto può aver avuto su Caravaggio se, come ormai sempre più spesso si ipotizza, fuggendo da Milano deve essersi recato a Venezia dove potrebbe aver compulsato, per esempio, San Rocco cura gli appestati, che, secondo lo storico, sembra avere rapporti con la scena della sepoltura nel dipinto delle Sette opere di Misericordia a Napoli, che Argan nel 1956 definì «il più importante quadro religioso del Seicento». E sulla luce e le sue simbologie sacre nel 2006 anche il critico Max Milner basò la sua lettura di Caravaggio: «il grande pittore religioso della sua epoca, il solo che abbia saputo, prima di Rembrandt, far vivere Dio tra gli uomini e soprattutto, fedele fedele all’insegnamento di Filippo Neri, tra i poveri». Idea, del resto, valorizzata già da Maurizio Calvesi.
Un’ultima nota, fra le tante possibili rispetto al “cantiere” in progress di Zuccari, sul saggio inedito che chiude il volume, incentrato sull’Ecce Homo riemerso due anni fa da un’asta madrilena e ritenuto opera di Caravaggio. Ci fu la corsa a essere i primi nell’attribuzione al Merisi (quello più infervorato era Sgarbi, poi Pulini e Terzaghi e altri). Quadro intrigante: bella figura del Cristo, scena e pittura tipicamente caravaggesca: all’epoca ritenni che ci potessero essere alcuni dubbi sull’autografia. Il titolo che Zuccari impone al capitolo comprende anche una domanda: «Un nuovo Caravaggio?». Lo storico fu tra i primi ad accogliere la notizia come degna di essere considerata e arrivò addirittura a ipotizzare il significato simbolico di una forma luminosa nella corona di spine, possibile segno della divinità di Cristo, tesi tutt’altro che certa. Oggi però scrive: «l’autografia va ancora confermata» dopo che il restauro avrà portato il dipinto «in condizioni di migliore leggibilità». Il quadro presenta parecchie zone degradate, perdite di colore e ridipinture, che forse stanno mettendo a dura prova i restauratori. Ben pochi conoscono il quadro nello stato attuale. Speriamo che non si arrivi a un maquillage come nel Salvator Mundi di Leonardo.