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IL CASO. Caravaggio, chi è il vero Matteo?

Maurizio Cecchetti giovedì 2 agosto 2012
Uno spettro agita gli storici dell’arte da qualche giorno, ma non è la bufala dei cento presunti disegni giovanili di Caravaggio; sempre del Merisi si tratta, ma qui parliamo di un caso vero, un caso d’interpretazione esposto dalla storica dell’arte Sara Magister a metà luglio nel programma «La domenica con Benedetto XVI» di Tv 2000. Un caso dove Caravaggio emerge in tutta la sua intelligenza ribelle e dissimulatrice rispetto alle convenzioni stabilite. La Vocazione di san Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma è una di queste sue imprese «dissimulatrici». Sara Magister ha rilanciato un dubbio "amletico" che da molti anni grava su questo capolavoro: chi è il vero Matteo? La tradizione iconografica da circa quattro secoli ha infatti dato per certo che Matteo sia l’uomo al centro della tavola, ben vestito, barba lunga, grigia e curata; e quella mano il cui dito indice sembra indicare lui stesso. E se la mano del presunto Matteo, in realtà, indicasse qualcun altro? L’uomo a capotavola, per esempio, che in abiti dimessi, persino un poco logori, sta arraffando i soldi a testa bassa, quasi senza accorgersi di Cristo? L’interpretazione di Sara Magister in realtà non è nuova: negli anni Ottanta del secolo scorso alcuni storici dell’arte avevano posto la questione trovando un coro di smentite che ha fatto cadere via via l’ipotesi. In realtà, l’interpretazione non è affatto peregrina. Chi la contesta obietta col buon senso considerando improbabile l’effetto di miopia che avrebbe consolidato per quattro secoli una tradizione e identificato con sicurezza il personaggio nel quadro.
È l’obiezione riproposta da un’altra storica dell’arte, Elisabeth Lev, che risponde a Sara Magister (in una nota affidata all’agenzia internazionale "Zenit"), domandandosi se questo equivoco di comunicazione non sia allora «il segno dell’insuccesso di un dipinto» (il biografo di Caravaggio, Giovan Pietro Bellori, accreditò la corrente identificazione del personaggio di Matteo, pur notando come l’oscurità della cappella e i colori tenebrosi del dipinto ne rendessero difficile la lettura piena: all’epoca non c’era l’elettricità e il lume di candela non assecondava certo la visione). Si resta un po’ sconcertati, per l’estemporaneità dell’osservazione, a leggere la replica di Elisabeth Lev: «Effettivamente il gesto è di difficile lettura... tuttavia, la risposta può essere trovata nella pratica artistica del Caravaggio. Il disegno non era il suo forte». Se dobbiamo pensare che un’interpretazione così rilevante sia condizionata da un errore di maestria del Caravaggio, be’, non varrebbe la pena di starci a pensare un minuto di più. Già Bernard Berenson nel suo libro su Caravaggio del 1951, a proposito del Battista della Galleria Borghese, insinuava che Caravaggio non avesse imparato mai a rendere le mani espressive «o anche solo a dipingerle con accuratezza». Il saggio di Berenson metteva in gioco, fin dal titolo, la parola «incongruenze». Caravaggio dipingeva, secondo il grande storico, per farsi notare, e le incongruenze avevano l’effetto di épater le bourgeois. Per valutare l’interpretazione ripresa oggi da Sara Magister si dovrebbe osservare l’opera come se non l’avessimo mai vista e non ne conoscessimo l’interpretazione abituale. Il primo giudice è l’occhio, e non c’è dubbio che l’occhio qui recalcitra. Ammesso che Matteo sia quel signore vestito sontuosamente che sembra chiedere «Chi, io?», che significato ha dunque la figura "incongrua" a capotavola, che se ne sta in silenzio, ignorando, volontariamente o meno, ciò che accade attorno alla tavola cui è seduto con altri tre personaggi colti invece di sorpresa dall’apparizione di Cristo? Tutto nella composizione sembra portare a lui. Le radiografie del quadro hanno da tempo mostrato alcune cose importanti. Il braccio di Cristo, in un primo stadio si trovava in posizione un po’ più rialzata; la figura dell’apostolo in piedi che va verso Cristo, forse Pietro, venne invece aggiunta da Caravaggio in un secondo momento. La diagonale tracciata dalla luce che taglia in due lo spazio – la parte sopra illuminata, quella sotto in penombra, un tema tipico del Caravaggio –, trova la sua parallela ribassata nella retta che congiunge lo sguardo di Cristo e il volto del capotavola, passando tangente alla parte inferiore della mano di Gesù e alla parte superiore del presunto Matteo. Questa retta converge con quella che, partendo dalla mano dell’apostolo in piedi, corre tangente alla parte inferiore del presunto Matteo, formando insieme una "freccia" che punta sul capotavola. Se le direttive spaziali hanno un significato, Caravaggio sta guidando il nostro sguardo verso quel personaggio. Perché? Forse ci sta dicendo che non dobbiamo fermarci alle apparenze, dobbiamo essere capaci di vedere oltre le verità ufficiali. Andreas Prater nel 1985 prese il toro per le corna e sviluppò un’intuizione che era stata anche di Nicholas De Marco tre anni prima. Sulla rivista tedesca "Pantheon" firmò un articolo intitolato Dov’è Matteo, che enumera le prove a sostegno della sua ipotesi: Matteo-Levi, il pubblicano, l’esattore delle tasse (una figura odiata dagli ebrei perché riscuoteva i tributi che finivano nelle casse dell’imperatore romano) è, in coppia con l’altro gabelliere in piedi e occhialuto, simbolo della peccaminosità indotta dal denaro e dai beni materiali ma anche dell’avarizia; il Matteo tradizionalmente accettato, non raccoglie la moneta, ma la dà; il capotavola e Cristo sono i poli dialettici della scena; e così conclude: «Caravaggio mostra la vocazione, ma la chiamata di Cristo non ha ancora raggiunto il suo destinatario... il Matteo di Caravaggio, al momento della chiamata, non è più il peccatore, ma non è ancora l’apostolo... La "forza di gravità" del peccato lo fa rimanere fermo e rende il suo atteggiamento un elemento ritardante, grazie al quale Caravaggio riempie il vuoto minimale tra il "seguimi" e l’"allora si alzò"».
L’invito a lasciare tutto e a prendere su di sé la propria croce (simboleggiata dall’infisso della finestra in alto), non poteva essere per Caravaggio una cosa da accogliere a cuor leggero: l’immediatezza della risposta, come si legge nel Vangelo, per Caravaggio ha una durata – il tempo interiore della decisione, della libertà – e si materializza nello spazio fisico che separa l’istante della chiamata da quello della risposta. Un tempo "denso", quello del libero arbitrio, della risposta libera. «Caravaggio osa privare l’osservatore dell’effetto immediato del verbo di Cristo», scrive Prater. E l’altro Matteo, quello che rischia di vedersi usurpato il ruolo? Prater lo definisce «figura alibi», che Caravaggio ha disposto in primo piano per "depistare" il giudizio dei committenti. Una specie di controfigura o un personaggio civetta: «Mentre il Concilio di Trento aveva raccomandato chiarezza e nitore nell’espressione figurativa – scrive Prater – egli fa apertamente di tutto per trarre in inganno l’osservatore che non guardi con grande attenzione, offrendogli un falso santo in una figura di primo piano che, piazzata centralmente e in piena luce, ha fino a oggi sostenuto con successo il ruolo di Matteo». E il trucco deve aver funzionato se per quattro secoli ha retto la scena e, soprattutto, se altri artisti, dopo Caravaggio, l’hanno preso per buono e imitato. Alla tesi di Prater replicò nel 1988 su "Pantheon" Hildegard Kretschmer, avvalorando il dubbio ma senza dirsi convinta; nello stesso anno, sulla rivista dell’Istituto Warburg, Angela Hass rilanciò questa nuova interpretazione; nel 1991 Herwarth Röttgen, ancora su "Pantheon" respinse recisamente l’ipotesi di Prater con argomentazioni abbastanza capziose; nel 1993, Irwing Lavin la respinse con obiezioni più solide ma non sufficienti a scalzare il dubbio, anche perché fondate sulla semplice induzione logica di significati prestabiliti o storicamente accreditati (ciò su cui è bene vigilare sempre quando si parla di Caravaggio). Resta lo spunto raccolto da Sara Magister per rilanciare la questione, ovvero le parole di Benedetto XVI: «I dodici apostoli non erano perfetti. Gesù non li chiamò perché erano già santi, ma affinché lo diventassero, affinché fossero trasformati, per trasformare così anche la storia». E chi più del capotavola nel dipinto della Contarelli corrisponde a questo identikit?