Agorà

Arte. Il braccio di ferro con la morte di Caravaggio

Carlo Ossola martedì 31 gennaio 2023

Caravaggio, “Giuditta e Oloferne”, 1600-1602 circa. Roma, Palazzo Barberini, Gallerie nazionali d’arte antica

Il ricco volume che ci viene offerto è speculare complemento e compimento di un precedente volume, dello stesso autore, dedicato a Caravaggio controluce (Skira 2011). Se in quel libro, con felice endiadi, erano in rilievo Ideali e capolavori (sottotitolo e traccia di lettura) qui prevale l’idea del «cantiere» aperto, delle questioni da approfondire, delle fonti da auscultare, dei cartigli posticci da rimuovere, entro quella certezza che Alessandro Zuccari definisce con acuta sintesi: «la compresenza – in Caravaggio – di riferimento classico e di studio dal vero» ( Alessandro Zuccari, Cantiere Caravaggio. Questioni aperte, indagini, interpretazioni, De luca, pagine 432, euro 38; da ricordare altresì: A. Zuccari, Il giovane Caravaggio. “Sine ira et studio”, De Luca, 2018). Campo di tensioni, certo, in cui l’interrogazione religiosa (si pensi alla Madonna dei pellegrini) crea continue divaricazioni: ferite e bagliori, così bene individuati da Mario Praz: «Ed ecco avviarsi la ricerca d’un Caravaggio religioso dietro l’aspetto tenebroso e apparentemente blasfemo, un tipo di ricerca già fatto per Baudelaire » ( Caravaggio, 1974; poi in Il giardino dei sensi, Mondadori 1975). È quanto l’autore approfondisce nel vigoroso capitolo sulla Resurrezione di Lazzaro , nel quale, dopo aver richiamato la definizione di Herwarth Röttgen (i gesti del resurrecturus sono «come una lotta dall’esito ancora incerto con la morte »), conclude richiamando il calzante versetto della liturgia di Pasqua: « Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus ». Il Lazzaro di Caravaggio è morte e sboccio, non diversamente da quello che ci consegnarà Baudelaire, nel vortice d’abisso - disfatto e risorgente: « au bord d’un gouffre séculaire, / Où, Lazare odorant déchirant son suaire, / Se meut dans son réveil le cadavre spectral / D’un vieil amour ranci, charmant et sépulcral» ( Le Flacon, dalle Fleurs du Mal). Si riferiva Baudelaire al Caravaggio? È del tutto possibile, se pensiamo a quanto Seicento Ungaretti vede rinascere nei Romantici e in Baudelaire: «Quanto il Seicento potesse evo quel periodo della prima generazione romantica che va dagli ultimi lustri del Settecento al 1850, l’ho imparato bene una volta che ebbi occasione di vedere in una stessa giornata tutte le opere del Caravaggio conservate a Roma: braccia tese nello spavento, dita aperte della mano, bocca aperta in un grido strozzato, interno, aspirato» ( Immagini del Leopardi e nostre, 1943).

Caravaggio, "Resurrezione di Lazzaro", 1609. Messina, Museo Regionale - WikiCommons

Caravaggio – si pensi alla Vocate zione di san Matteo – è davvero pittore che sembra uscito dal Prologo del Vangelo di Giovanni, in una perenne lotta di tenebre e di luce, meglio «come una ferita di luce nel buio» (Unga-retti, ibid., clausola); ove tuttavia la luce, franta, pur riverbera – perennemente: «Caravaggio impone alla luce di sconquassare e di ridurre in pezzetti il vero, per servirsi poi di quei pezzi luminosi […] ad erigere un’architettura di un vero diverso» ( Jan Vermeer, 1967). Non pare dunque indebito, in questo «cantiere Caravaggio», sottolineare le nervature di un’«architettura del vero» che traspare nel meditato saggio finale dedicato (seguendo i suggerimenti di Max Milner) a La luce nascosta e il mistero rivelato: Rembrandt e Caravaggio a Emmaus. Qui Zuccari, seguendo la traccia di Milner e di Calvesi rintraccia finemente quella ricerca della “verità dell’uomo” che è così propria del Caravaggio: «Questa evoluzione verso la semplicità e l’intimità va di pari passo con un’attenuazione del patetico sia nei gesti sia negli sguardi», per concludere con Milner: «Caravaggio è il grande pittore religioso della sua epoca, il solo che abbia saputo, prima di Rembrandt, far vivere Dio tra gli uomini e soprattutto, fedele all’insegnamento di Filippo Neri, tra i poveri». I poveri di Caravaggio sono, in effetti, la sua più alta risorsa: Zuccari dedica pagine ispirate, e inappuntabili, alle Sette opere di misericordia, conservate a Napoli, evocando il prezioso contributo di Walter Friedländer che, a sua volta e sin dal 1955, aveva evocato, per il Merisi, il modello di san Filippo Neri in quelle figure che sono un repertorio di cristiana umiltà «completely in harmony with Filippo Neri’s religious principles». Anne Piéjus ha recentemente mostrato quanto conti la lezione del santo nella devozione e nella musica barocca a Roma; qui Alessandro Zuccari ne fa una cifra esplicita della lettura di Caravaggio: lungi dal lambire le tentazioni di una parcare consistente della critica volta a frugare nel Caravaggio venature eterodosse o a consegnarlo a una scapigliata insofferenza per l’arte della Controriforma, l’autore attinge a quella che Bonnefoy ha definito la «carità d’un Caravaggio » (anche qui accostata a san Filippo Neri), nel suo Roma, 1630. Potremmo anzi concludere che la lettura misurata di Zuccari invera quella che per Bonnefoy era stata un’intuizione, o forse persino una rivendicazione: «E questo rinserrare [scil. nel Caravaggio], questi primi piani, fanno sì che le figure smettano di apparirci quali significanti di una narrazione storica, ma appaiano invece come esseri reali, pronti a sgusciar via dal quadro, verso altri padiglioni, altre regioni notturne, offerte alla nostra immaginazione nel mistero, più intensamente provato, di quei bagliori » ( Roma, 1630). Poiché nelle opere del Caravaggio non c’è narrazione, ma r(R)ivelazione, grido e bagliore che disvela.