La filosofa. Caramore: «Vecchiaia, tempo pieno che richiede cura e cultura»
Gabriella Caramore
In una società, come la nostra, in cui l’età media delle persone è sempre più alta, è comprensibile che si moltiplichino le riflessioni sulla terza età o, se non vogliamo a tutti i costi accondiscendere al linguaggio “politicamente corretto”, potremmo anche dire sulla vecchiaia. Non evita quest’ultima parola Gabriella Caramore, autrice del saggio L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia (Garzanti, pagine 144, euro 14,00), il quale verrà presentato sabato 16 settembre alle ore 16.00 con Lidia Ravera e Michela Fregona a Pordenonelegge . Il libro si articola in un’intensa meditazione, che fa riferimento non tanto ai molti studi sociologici o medici sulla vecchiaia, quanto alle espressioni letterarie, musicali, artistiche, oltre che alle esperienze vissute. Classe 1945, giornalista, scrittrice e docente, l’autrice spiega con queste parole perché chiama la vecchiaia “l’età grande”: «Grande per il numero degli anni. Certo. Ma non solo. Grande perché deve sopportare un carico di prove che non ha l’eguale nelle altre fasi della vita. Ma grande anche perché è quella più capace di avere consapevolezza di sé».
Gabriella Caramore, quando ha iniziato a riflettere sul tema della vecchiaia? Sulla spinta di quali eventi?
Forse ho sviluppato una sensibilità particolare rispetto a questo tema perché ho sempre avuto persone “grandi” intorno a me. I miei genitori, quando sono nata, erano già quarantenni, cosa scontata ora ma non a metà del secolo scorso; le mie sorelle erano molto più grandi di me; poi i nonni, gli zii... Ma a pensarci consapevolmente ho cominciato quando il mio corpo ha avuto dei cedimenti per i quali è previsto aggiustamento e non guarigione; quando ho visto sparire amici intorno a me; quando se ne sono andati dei miei familiari; e poi, forse soprattutto, quando ho cominciato a percepire di essere nata in un’epoca diversa da questa, quando a scuola c’erano i banchi di legno, quando non c’era la tv, quando le lettere si scrivevano a mano. Ma anche, ora che sto entrando nell’età davvero grande, mi accorgo con dolore che il mondo non si rinnova, come forse avevo sperato, che non riesce a trovare rimedio ai suoi mali, come accade in vecchiaia. E questo mi fa percepire la vecchiaia personale come un fenomeno dentro la Storia che invecchia anch’essa.
Lei a un certo punto, alludendo a Dante, definisce la vecchiaia una « vita nova »? Davvero questa fase dell’esistenza può segnare l’inizio di una nuova vita?
Direi di sì, anche se non vorrei che questa espressione facesse pensare a una nuova giovinezza, a una possibilità indefinita di vita spensierata e serena come certe seduzioni commerciali sembrano promettere. Direi che invece la “novità” consiste proprio per percepire, forse per la prima volta in maniera così inequivocabile, che c’è uno sbarramento di fronte a ciascuno di noi. Che la vita finisce, e anche se lo abbiamo sempre saputo è solo ora che ci appare con una evidenza spietata. Ma questo può anche indurci a dare maggior valore agli anni, ai giorni che restano, cercando di viverli con pienezza, restituendo loro quel senso che molte volte, durante la vita attiva, ci era sfuggito.
La pandemia ha mostrato la fragilità degli anziani e l’inefficienza dei modi in cui negli ultimi decenni abbiamo spesso organizzato la loro vita (si pensi a cosa è successo in molte rsa). Quale lezione dobbiamo trarre da quella drammatica esperienza?
Purtroppo se ne è tratta una lezione soltanto teorica, e ancora nessuna radicale trasformazione pratica ne è seguita. Manca un senso complessivo, sul piano politico e sociale, della cura della vita umana soprattutto in relazione agli anziani, considerati come vite inutili, spesso come vuoti a perdere. I vecchi, come ogni essere umano, non sono tutti uguali. Alcuni preferirebbero continuare a vivere a casa loro, altri con un familiare, altri ancora in case per anziani. Ma per tutti ci vorrebbe un supporto di aiuto, di assistenza, di cura, e anche di cultura.
Come possiamo rendere la vecchiaia un “tempo pieno”? Non tanto di cose quanto di senso.
Occorrerebbe che il tessuto sociale intorno fosse più accudente, più progettato per facilitare le cose, invece di lasciare i vecchi nell’abbandono. Ma anche il soggetto, quando entra nel tempo penultimo della propria vita, dovrebbe compiere uno sforzo per non lasciarsi andare, per non anticipare la fine nella trascuratezza e in una malinconia senza sbocco. Lo so, non è facile. Ma bisognerebbe, per tempo, aver cura di sé e delle relazioni, continuare ad avere curiosità per il mondo, per i piaceri forse più piccoli, ma non per questo meno significativi.
A un certo momento lei parla di eutanasia, riprendendo però il valore etimologico del vocabolo. Vuole spiegare questo concetto?
Certo, la parola “eutanasia” ha acquistato un significato sinistro da quando ideologie criminali la hanno usata per occultare le loro pratiche assassine. Ma, di per sé, significa soltanto una “buona morte”: cioè senza sofferenze atroci, senza accanimenti inutili, in un contesto amorevole e coscienzioso. Andrebbe riconsiderata in questo senso. Del resto ricordo che Paolo VI, nel 1970, scriveva a un amico: “Il dovere del medico consiste nel calmare le sofferenze, invece di prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo, a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va verso la conclusione”.
Nel suo libro ci sono varie citazioni letterarie, molte tratte dalle Sacre Scritture. In che modo la sapienza biblica può aiutare gli uomini e le donne di oggi ad affrontare questa fase della vita, anche con uno sguardo su ciò che sta oltre?
Nella Bibbia la vecchiaia è descritta con realismo, nelle sue molteplici espressioni. Ci sono sì i patriarchi che muoiono “sazi di giorni”, con i figli attorno a testimoniare la consolazione della discendenza. Ma poi ci sono i vecchi derisi, umiliati, sofferenti: “Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Salmo 71). Direi che però, complessivamente, l’invito è a porre lo sguardo sulla necessità di vivere “bene” nel tempo della pienezza, nella fiducia che ogni vita possa trovare il proprio senso: in Dio, per l’uomo biblico; nella complessità della Storia, per l’uomo contemporaneo.