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La coreografa. Cristina Caprioli: «La mia idea di danza democratica»

Angela Calvini, inviata a Venezia sabato 3 agosto 2024

La coreografa Cristina Caprioli, Leone d'Oro alla Biennale Danza 2024

«Bisogna riconoscere le barriere per scavalcarle». Sorride Cristina Caprioli, 70 anni, danzatrice, coreografa, teorica sperimentale, accademica e curatrice cui la 18ma Biennale Danza, che si è conclusa ieri sera a Venezia, ha attribuito il Leone d’Oro alla carriera. Il festival diretto da Wayne McGregor le ha dedicato inoltre una retrospettiva che ha visto in scena tre fra i sui ultimi lavori in prima italiana, «tre esempi del mio modo di lavorare su spazio, coreografia e partecipazione» spiega la Caprioli ad Avvenire. Il fascinoso Dead Lock, un assolo-saggio sulla danza “centripetale” collegata ad una videoinstallazione sospesa fra vita e morte, l’installazione Flat Haze e Silver.

Nata a Brescia, formatasi fra Italia e la Svezia, terra della madre, Caprioli inizia la carriera di danzatrice nei teatri tedeschi, prima di trasferirsi a New York per studiare il postmoderno. Dopo anni di insegnamento nomade in Europa, si trasferisce a Stoccolma dove fonda la compagnia ccap e inizia a coreografare, curando progetti transdisciplinari e progetti comunitari, che ha condiviso con un pubblico di tutte le età e abilità, di contesti e strati sociali diversi.

Signora Caprioli, cosa ha provato a ricevere il Leone d’Oro alla Carriera?

Sono onorata, mai in vita mia avrei immaginato di ricevere un simile riconoscimento. Io, così intrinsecamente marginale, assolutamente precaria. Deliberatamente estranea al valore di mercato. Il Leone d’Oro è un riconoscimento che ha un valore simbolico immenso, una spinta verso l’ottimismo in questo momento molto difficile. È importante anche per chi, come me, si occupa di quel campo della danza di ricerca, non così presente sul mercato e che invece è il motore per il futuro dell’arte.

Lei è da sempre molto critica nei confronti delle logiche di mercato del mondo dello spettacolo...

Oggi nell’arte c’è un movimento di reazione alle condizioni frenetiche del mercato, è come lo slow food. Ci sono dei cicli: prima l’espansione del pseudointellettualismo e di una forma di danza molto diretta ed estemporanea, mentre ora la gente vuole tornare a una specificità del segno e dei linguaggi. Nei giovani sento un desiderio di imparare, anche se hanno fretta di arrivare al risultato. E’ un momento di transizione.

Lei mescola le discipline, la danza, l’arte, la letteratura, la scienza, l’architettura...

La vita è multilinguistica. L’arte è il campo della riflessione e bisogna essere pronti a passare da un linguaggio all’altro. La danza non è solo un corpo che si muove, ma è anche uno spazio specifico dove si creano architetture, ha a che fare col campo della psicologia, dell’immaginazione, della capacità del pensiero astratto.

Una scena di "Flat haze" di Cristina Caprioli - Cortesy of Biennale di Veezia ph. Andrea Avezzù

Lei alla periferia di Stoccolma gestisce la Hall, dove propone spettacoli gratuiti per un pubblico di ogni genere, età e formazione.

Innanzitutto se l’arte è veramente arte deve abbracciare sia chi sa tutto di danza sia chi non se ne intende. L’arte, se la fai davvero, la gente la sente. Il nostro modo di comunicare è diretto, offriamo una esperienza di arte che è verità, non pedagogia. L’aspetto politico è quello di rompere l’idea di gerarchia di interpretazioni. E poi c’è una economia di scambio, la base è l’idea democratica della percezione e non puoi fare questo scambio se richiedi di essere pagato. Altrimenti lo spettatore compra il dritto di consumarti. La danza oggi è diventata solo intrattenimento, è un prodotto consumistico. Noi invece offriamo il nostro lavoro, il pubblico offre la sua attenzione e il suo tempo.

Chi è il vostro pubblico?

Alla Hall si incontrano i borghesi colti del centro città e gli immigrati, la nonna di 90 anni con la nipotina di 6, persone con una cultura diversa. I ministeri hanno regolato il mondo dello spettacolo per categorie, come fossero scatole da scarpe, ma la realtà non è così. La politica cultuale restringe la cultura. Noi offriamo una resistenza: produciamo moltissimo con pochissimi soldi, circa 180 spettacoli all’anno con un decimo delle risorse di cui avremmo bisogno.

Lei ha lavorato molto come danzatrice internazionale, poi ha scelto la coreografia e la famiglia.

Io non ho mai fatto piani. A 6 anni mio padre mi iscrisse a una scuola di danza classica, poi vidi danzare Nureyev e fui folgorata: lui era molto fisico, aveva carisma e forza, ed erano molto chiare la spazialità e l’uso dell’energia. Percepii la danza come la possibilità di un corpo di trasformare la propria morfologia. Mi sono ritrovata a 17 anni a Parigi, poi per anni a New York. Ma mi ero stancata della vita nomade, di puntare solo sulla danza. Quando mi diedero un lavoro di insegnamento in Svezia ho capito che era il momento di cambiare vita. Ma diventare coreografa a 40 anni, con due figli e da immigrata non era affatto facile, come pure insegnare all’università dove c’è una struttura di potere maschile. Ma io ho resistito.