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INTERVISTA. Vinicio Capossela: la mia musica celebra la festa

Massimiliano Castellani mercoledì 6 novembre 2024

Il cantautore Vinicio Capossela in una scena del suo film "Natale Fuori Orario" in cui canta alcuni dei brani del nuovo disco "Sciusten Feste N.1965"

«Nella ricerca dei brani più che la liturgia cattolica mi ha ispirato la tradizione afroamericana Il soul è pieno di riferimenti biblici e lì Jesus è a fianco dell’uomo del ghetto» Il cantautore con il suo film “Natale Fuori Orario” e con il nuovo disco “Sciusten Feste N.1965”, riscopre la ritualità dei canti del Natale Se una notte d’inverno un viaggiatore chiedesse: ma chi è il più originale dei nostri cantautori? La risposta non potrebbe che cadere su Vinicio Capossela. Un cappellaio magico, un golem del cantautorato, nato per caso nella crucchissima Hannover, il 14 dicembre 1965, da famiglia di sangue irpino (da adulto è diventato genius loci di Calitri e patron dello “Sponz Fest”) che da anni vive e lotta per una musica alternativa. Lo fa dal suo studio pensatoio, nel cuore del bazar milanese, a ridosso della Stazione Centrale, dove ci accoglie circondato da cataste di cappelli e maschere di scena e libri impilati alle pareti. Un luogo dell’anima che abbandona solo per partire in tour "Conciati per le Feste", come adesso (l’8 novembre è al Teatro Cartiere di Firenze), o per tornare nella Bassa reggiana, dove è cresciuto, a Scandiano, per non interrompere la tradizione dei concerti delle feste natalizie al Fuori Orario, la sua Macondo teatrale, a Taneto di Gattatico. Altro luogo dell’anima omaggiato nel film ultradistopico Natale Fuori Orario, diretto da Gianfranco Firriolo (nelle sale dal 25 novembre) e presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma. Ma siamo qui per parlare dell’ultimo disco appena uscito Sciusten Feste N.1965 ( prodotto per La Cupa con Alessandro Asso Stefana), «quindici canzoni solstiziali e di coriandoli di birra, di lettere d’amore e di resa dei conti», spiega Capossela arricciandosi la barba rabbinica che prelude a un prologo teosofico. «Sono canzoni sulla ritualità delle feste e la fonte di ispirazione non è la Chiesa cattolica che è la più antica e durevole istituzione di grandi spettacoli legati alla liturgia, ma io sono partito dal repertorio afroamericano e angloamericano che dalla rivoluzione protestante in poi ha permesso agli artisti e al popolo tutto di avere un rapporto più diretto con Dio. Gli afroamericani soprattutto hanno elaborato tutte le mitologie in maniera più accattivante. James Brown ha inciso un disco intero dedicato al Natal, A Soulful Christmas, in cui invita Jesus a venire in terra, ma in mezzo al ghetto. Ed è un Gesù a portata di mano, come una barretta di cioccolato quello che canta Tom Waits in Chocolate Jesus » . E su questa scia si pone il cammino del laicissimo Vinicio che “santifica” a suo modo le feste comandate, come «ultime tracce di sacralità».

Pensiero condiviso nel dialogo avuto (sulla “Repubblica”) con l’antropologo Marino Di Niola. E la sacralità è il punto di partenza del disco che si apre con una preghiera, Abide with me.

«È un brano ricavato da uno scritto del reverendo anglicano Henry Francis Lyte (1793-1847) in seguito alla morte di un suo grande amico e fratello, il pastore Abraham Swanne. È ispirato a un passo del Vangelo di Luca in cui si chiede al Cristo risorto di restare con noi, perché le tenebre incombono. L’ouverture apre questo inno straordinario anche musicalmente, la versione senza parole è di Thelonious Monk. E la musica di per sé ha una sua epicità, invita all’abbracciamoci per farci forza. Nel disco ripropongo il testo nella traduzione geniale di Jacopo Leone che me le aveva mandata anni fa e ho cominciato ad eseguirla nei concerti delle feste al Fuori Orario adattandola all’occasione come un recitativo in cui è venuto fuori quel grido di aiuto che non è più solo un “resta con me”, ma diventa “sopporta” e supporta. Un inno quanto mai attuale, perché il basto, che un po’ tutti portiamo sulla schiena, è sempre più pesante da sopportare».

Un attimo di respiro dal dover sopportare, dalle fatiche del mestiere di vivere quindi può concederlo la festa.

«Ho appreso dallo stesso Di Niola che l’etimo della festa è lo stesso di focolare. Quel fuoco acceso nella tenda nell’Iliade, dove fuori c’è la battaglia, ma in quello spazio coperto e al sicuro della tenda recuperi l’umano: gli affetti, l’intimità. La festa è questo, ma è anche dissipazione, uscire da sé ma con gli altri, è una forma di partecipazione e di superamento dell’individualismo e questa riflessione è il lato più interessante. La festa comandata ormai è diventata consumo. La società mercantile lo ha applicato al calendario cristiano seguendo la stessa ritualità, ma come occasione di business. A scavare sotto, il filo conduttore è la paura del buio. Natale cade in dicembre, il momento più buio dell’anno e quindi viene quasi a stimolare la necessità umana di un ritorno della luce. Per questo ho deciso di fare uscire queste “canzoni necessarie” che hanno momentaneamente scalzato quelle Tredici Canzoni urgenti del mio album precedente per sopportare insieme il grande buio in cui ci troviamo, nella speranza che torni al più presto la luce».

La luce dei del suo Natale tedesco, da bambino, brilla in Sciusten Feste N.1965?

«No quello è tutto immaginario. Sono un figlio della migrazione pangermanica anni ’50-‘60 di quei lavoratori arrivati lì con il loro piccolo carico di cultura subalterna, ma a me non è toccato mai quel Natale da poesia in piedi sopra il tavolo o con le lucine accese in casa. La canzone rimanda alla mia nascita, e il titolo è un appunto sgangherato scritto da mio padre Vito che scambiò “Sciusten Feste” al posto di “Schützenfest” che è un festival estivo con la fiera, la birra che scorre a fiumi e il luna-park con il tiro a bersaglio. In quel biglietto poi papà aggiunse 1965 il mio anno di nascita che nella canzone scandisco: “1-9-6-5”, ispirandomi al Pierino Porcospino, il Der Struwwelpeter illustrato dal dottor Heinrich Hoffmann, il bambino dai capelli arruffati che non si lava e non taglia mai le unghie. L’impressione e la memoria rivestono questa festa del senso di meraviglia che è insito nella nascita di ognuno di noi. Venire al mondo è come essere sparati su una ruota panoramica, questa ti può lanciare alle stelle o nel fango, come diceva Don Chisciotte».

Il disco spara alle stelle e lo fa con i classici: White Christmas, Campanelle. Ma il brano più dirompente che traccia il ponte con la tradizione afroamericana è quel Charlie, Christmas card from hooker in Minneapolis.

«Il mio Natale è rock, Springsteen, Waits... Alfonso Maria dè Liguori ha scritto Tu scendi dalle stelle ma nella nostra tradizione di canti natalizi non c’è traccia di rock. Nella mia versione Charlie, Christmas card from hooker in Minneapolis, la protagonista chiede aiuto per tornare a casa, a Scandiano, il paese dove sono cresciuto e scrive: devi prestarmi dei soldi altrimenti non esco a Natale e non so se uscirò per san Valentino. Attualizzo certo, come in Santa Claus is coming to town dove il portatore di doni che potrebbe essere un corriere di Amazon viene spinto al gesto estremo per la disperazione di non farcela a consegnarli tutti e in tempo per la festa».

Anche in Sciusten Feste alla poesia cantautoriale si aggiunge la filastrocca e quel fiabesco che rimanda a Gianni Rodari. «Un gigante Rodari. La filastrocca è un ritorno all’infanzia e l’inverno è la stagione prediletta della fiaba, e io da molti anni scrivo filastrocche come Marajà o Cha Cha Chaf della pozzanghera che sono canzoni bambinesche. Hoffmann raccontava di aver inventato Pierino Porcospino perché diceva che al bambino non devi per forza spiegare la morale delle cose ma piuttosto devi fargli toccare le cose, devi fargli sentire gli oggetti e ciò che c’è nel mondo in maniera concreta. Il lato infantile non è altro che la sospensione del tempo dell’incredulità per passare inevitabilmente al mondo adulto che poi è popolato dai “creduloni”. Il tema dello Schiaccianoci o La danza della fata confetto che propongo nel disco riportano a quel tempo dell’infanzia e strumenti come il vibrafono, il carillon o i campanelli risuonano come una parte di quel tempo che custodiamo dentro di noi».

Dai suoni dell’innocenza al grido adulto di Wanna be like you: nell’attacco ricorda il timbro rabbioso di Piero Ciampi.

«Più che denuncia è la descrizione della condizione della jungla urbana che è poi la sostanza di questo disco, che parte dalla strada, dalla sua sporcizia ma anche dalla sua profonda umanità che sente il bisogno di incontro vivendo nella condizione di solitudine metropolitana. Davanti al titolo I wanna be like you, io aggiungo quel “voglio essere come te” e poi canto “come e più di te” che sottolinea quell’invidia che è anche un fattore evolutivo dell’uomo. In quell’attacco gridato sembro Piero Ciampi? Non c’avevo pensato, ma in effetti un po’ lo ricorda. E comunque anche Ciampi aveva scritto la bellissima E’ Natale il 24 dicembre, che, un po’ come le mie “canzoni necessarie” è qualcosa di fuori dal coro tra i brani delle feste».

Ma il disco alla fine si chiude con Il Guastafeste

«L’immancabile, colui che demolisce la festa perché riconosce il gioco, non lo condivide e fa sentire gli altri dei cretini perché si divertono. I governanti sono guastafeste? La maggior parte sì, sono così. Se riferito al mondo il guastafeste è il potente che scatena le guerre, ma nella cerchia delle nostro conoscenze c’è sempre uno che non è felice se sono felici gli altri. La mia canzone diventa un’analisi psicologica con l’elenco di tutte le situazioni che creano sofferenza nel guastafeste. “Con umore nero precipito dal cielo….”», accenna alla pianola con le candele, e così Capossela ci saluta. Che la festa continui.