Il caso. Capodistria, non spegnete la Tv del dialogo
Una immagine della sede di Tv Koper Capodistria a Lubiana, in Slovenia
«Tra pochi giorni succederà. Dal 9 novembre per decine di migliaia di persone non esisteremo più, saremo invisibili. Stanno per staccarci la spina». Più che un appello, è un grido di dolore quello che anima la 'Redazione dei programmi italiani' di Tv Capodistria, che a breve – questione di ore – sarà ridotta praticamente al silenzio. Sabato infatti scadrà il contratto d’affitto del satellite e nessuno intende rinnovarlo, né la Slovenia né soprattutto l’Italia, che fino a oggi aveva garantito la storica voce della minoranza italiana nei Paesi divenuti Jugoslavia alla fine della seconda guerra mondiale. Così dopo mezzo secolo di trasmissioni che, è il caso di dirlo, hanno fatto la storia della comunicazione in tempi non facili e in luoghi unici, come unici possono essere solo i territori di confine, per una larga fetta di telespettatori calerà il silenzio. «Il venir meno dei programmi italiani di Tv Capodistria a causa del taglio ai finanziamenti da parte italiana dimostra il disinteresse della nostra patria d’origine ed è un comportamento grave soprattutto dal punto di vista culturale», commenta Robert Apollonio, caporedattore responsabile del Programma televisivo per la Comunità nazionale italiana. «Tv Capodistria nacque nel 1971 con il ruolo impegnativo di realizzare i diritti all’informazione in lingua italiana in quella che allora era la Jugoslavia».
In una delle aree più multiculturali e plurietniche d’Europa, la redazione di giornalisti costituiva (fino a oggi) una realtà fondamentale di incontro e confronto, dando vita a una televisione 'transfrontaliera' quando ancora il termine nemmeno esisteva. «Dagli anni ’70 siamo sempre stati presenti nello spazio televisivo italiano con apici impressionanti di popolarità – ricorda Apollonio –, fummo persino la prima televisione a colori visibile in Italia», una novità assoluta che portò gli ascolti alle stelle. Alla fine degli anni ’80 arrivò la collaborazione con Fininvest e Tv Capodistria divenne il primo canale tematico sportivo d’Europa, la palestra in cui si formarono i grandi nomi dell’odierno giornalismo calcistico televisivo. Poi, con la morte del maresciallo Tito, all’inizio degli anni ’90 la sanguinosa guerra civile che dissolse la Jugoslavia e contemporaneamente anche i contratti di diffusione, limitando il segnale alla sola Istria e al Friuli Venezia Giulia. La rinascita nel 2006 fu il miracolo portato proprio dal satellite, «quando siamo tornati visibili in tutta Italia, oltre che in Istria, a Fiume e in Dalmazia, quindi in Croazia e Slovenia. In un mondo che erge muri noi abbiamo costruito ponti, mandando in onda i programmi in italiano per la nostra minoranza qui da noi, e i programmi in sloveno per la minoranza slovena che vive in Friuli Venezia Giulia».
Un’operazione addirittura eroica in certi periodi, quando a fronte di una pressoché totale incomunicabilità tra le diverse etnie, la televisione transfrontaliera portava avanti da sola i valori del pluralismo culturale, ma salvaguardava anche la secolare identità culturale e linguistica italiana di quelle terre... Un’impresa di successo ancora oggi, con la produzione di documentari e programmi per le due etnie, al di qua e al di là del confine, e la ritrasmissione reciproca dei telegiornali sloveni e italiani. «Ora tutto questo rischia di finire per sempre e solo per una triste vicenda di soldi», interviene la giornalista Laura Vianello, da trent’anni conduttrice di programmi culturali: l’affitto del satellite costa 259mila euro annui, di cui i 160mila a carico dell’Italia improvvisamente spariti. «All’inizio eravamo tanti giovani entusiasti, abbiamo sempre creduto in questa tivù e l’abbiamo fatta crescere. Ora che i tagli colpiscono il diritto all’informazione e al pluralismo, facciamo miracoli con pochi mezzi e tante passione. Il problema è globale – denuncia – nel mondo le minoranze sono sempre più spinte ai margini». Ma per spiegare la peculiarità di questa regione cita le sue vicende familiari, comuni a tanti: «Nella casa in cui vivo, prima abitava mio nonno nato sotto l’Austria, poi è nata mia mamma sotto l’Italia, sotto la Jugoslavia siamo nate io e mia sorella, sotto la Slovenia mia figlia... Non ci siamo mai spostati, ma su di noi sono passati quattro Stati». La frattura più cruenta nel 1947, con la tragedia delle Foibe e l’esodo degli italiani: «La gran parte se ne andò, altri rimasero. Mio nonno contadino amava troppo la sua vigna, non avrebbe retto lontano da qui, la figlia femmina che era mia mamma rimase con i genitori, i fratelli partirono. Siamo una famiglia a metà». Lei e i suoi colleghi sono «i figli dei 'rimasti' e abbiamo passato anni duri, sempre con un grande amore per l’Italia e un legame fortissimo con le nostre radici venete: per noi non è solo un lavoro, è un motivo di vita».
Eppure anche i posti di lavoro degli attuali 46 giornalisti, operatori e autori sono a rischio: 'spento' il satellite si tornerà al passato, visibili solo in Slovenia, e tante professionalità potrebbero diventare 'superflue'. L’appello quindi è al governo italiano, in particolare al ministero degli Esteri, che non metta a tacere «l’unica minoranza italiana all’estero autoctona», ripetono in un misto di orgoglio e amarezza. Le altre minoranze di nostri connazionali nel mondo sono tutte emigrate, solo quelle di Istria e Dalmazia sono rimaste laddove storicamente erano radicate da secoli, «e in un territorio così plurale la nostra emittente ha saputo tutelare la nostra cultura pur mantenendo una funzione di cerniera e di scambio». La crisi si è affacciata per la prima volta nel 2013, quando i fondi dall’Italia si sono dimezzati e la RTV, la televisione di Stato slovena di cui Tv Capodistria fa parte, comunicò l’intenzione di far migrare tutti i programmi televisivi dal satellite 'Hotbird 13 gradi est' (quello che copre l’Europa occidentale, Italia e Croazia comprese) al satellite 'E16A 16 gradi est' (destinato a Europa orientale e meridionale). «Tutte le nostre istituzioni reagirono in maniera compatta e sinergica», ricorda Maurizio Tremul, presidente dell’Unione Italiana, in rappresentanza delle 52 Comunità dei nostri connazionali d’oltre confine: tutti i programmi di RTV furono trasferiti tranne i 'Programmi italiani di Tv Capodistria', poi in parte cofinanziati dalla Slovenia. Anche sul piano economico «l’Unione Italiana per molti anni ha assicurato finanziamenti», prima grazie a interventi mirati da parte della Regione Friuli Venezia Giulia, poi attingendo alle risorse che l’Italia destina ai nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia. Ma oggi che i tagli sembrano essere irreversibili sia da parte nostra che slovena, un mare di solidarietà sta arrivando a Tv Capodistria dal suo pubblico quotidiano (40mila telespettatori solo in Slovenia, 200mila in Friuli Venezia Giulia), oltre che dal mondo dei social, dalle minoranze slovene e italiane, dalle associazioni di esuli e rimasti.
Che ricordano come Tv Capodistria fu l’unica ad affrontare già negli anni ’80 temi scottanti e ancora oggi divisivi come l’eccidio delle Foibe e l’esodo istriano. «C’era paura, certo – spiega Apollonio – ma i colleghi di allora ebbero il coraggio di parlarne. Noi c’eravamo sempre, raccontammo la dissoluzione della Jugoslavia, la guerra in Slovenia e in Bosnia negli anni ’90... Quando i trasmettitori sul Monte Nanos furono bombardati, solo il nostro non fu colpito e noi rimanemmo la sola voce della Slovenia in guerra che potesse parlare all’Occidente. Gli inviati dei grandi giornali stranieri venivano da noi in redazione, eravamo punto di riferimento per tutti». Ne ha viste e ne ha raccontate di storie, la piccola grande emittente istriana. Nei suoi studi televisivi ha messo in dialogo istituzioni, rappresentanti del mondo economico e politico, ha tenuto in vita dialetti e memorie, ha tutelato identità culturali senza rinunciare a uno sguardo globale. E oggi non demorde: «Facciamo qualcosa di 'europeo' – è la sua sfida alla Rai e a RTV –, a beneficio delle due minoranze italiana e slovena proponiamo un partenariato tra i due servizi pubblici». Ancora e sempre la sua vocazione di ponte, in un mondo che si ostina ad ergere muri.