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CALCIO INCHIESTA. Caos calmo brasiliano

Massimiliano Castellani sabato 13 luglio 2013
Questa storia dei Mondiali di calcio che dopo 64 anni tornano nel regno del fùtbol bailado e del jogo bonito, va necessariamente fatta iniziare allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro. Tra un anno esatto, il 13 luglio 2014, in questo tempio del calcio si disputerà la finale della Coppa del Mondo. Ma qui, nella coscienza popolare si è tramandato il ricordo indelebile di un’altra finale, quella del 16 luglio 1950. Il giorno del “Maracanãzo”, la tragica sfida tra il Brasile padrone di casa, contro gli odiati cugini dell’Uruguay, trascinati dall’eleganza di Schiaffino. Finì 2-1 per la Celeste di Montevideo e per i brasiliani fu un “suicidio” in campo, ma soprattutto fuori, con decine di vittime di quello che resta un fenomenale e forse unico dramma collettivo, da ultimo stadio.  Capro espiatorio, ingiustamente, della disfatta fu giudicato il portiere Barbosa, al quale il suo popolo non ha mai perdonato la “saponetta” sul gol-vittoria di Ghiggia. Lo scrittore uruguayano Edoardo Galeano, in Splendori e miserie del calcio, nel 1993 raccolse lo sfogo del vecchio Barbosa (morto nel 2000): «In Brasile la pena più lunga per un crimine è trent’anni di carcere. Io da quarantatré pago per un crimine che non ho mai commesso». Basta questa amara considerazione e la solitudine del portiere carioca, per capire che cosa rappresenti il calcio in questo Paese. Come Barbosa, non avevano commesso nulla di male neppure le tribù che fino a ieri occupavano l’area dell’ex Museo indigeno, nei pressi dello stadio Mario Filho, alias il Maracanã, e che ora sono state cacciate. Per ristrutturare il monumentale impianto, «gettando al vento 500 milioni di euro», accusano i difensori della tradizione. Per ridurlo a 77mila posti e deformando così un “catino” che lo rendeva unico (ora è anonimo come decine di arene europee), gli organizzatori della kermesse calcistica hanno pensato bene di sfrattare intere famiglie che rappresentavano l’antropologia culturale della città e dello stato di Rio. Hanno raso al suolo le loro povere, ma tradizionali case, per far sorgere aree commerciali e un megaparcheggio. Almeno 170mila persone hanno subito questo triste sconvolgimento per colpa della macchina Mondiale e ora chi di loro sarà in grado di dimostrare ai fantomatici catasti (come gli uffici anagrafe) la proprietà della terra in cui sorgeva l’abitazione riceverà indennizzi dai 1.500 ai 5.500 dollari. Altrimenti alla fame si aggiungerà la nuova condizione di senza tetto. È in questo clima di precarietà che si è disputata la Confederations Cup, per fortuna vinta dalla Seleçao del nuovo idolo delle folle, la stella Neymar. Mai come in questo caso il calcio, panem et circenses per la massa, è servito ad evitare l’apocalisse. Anche se, comunque, la rivolta popolare ha provocato sanguinosi scontri di piazza. Bilancio: tre morti, decine di feriti e altrettanti arresti. Il pretesto della sommossa, a cui non hanno mancato di partecipare ovviamente anche le frange ultrà dei club brasiliani, è stato il rincaro dei biglietti dei mezzi pubblici imposto nei vari stati. In realtà, questi 200 milioni di romantici innamorati del fùtbol temono le perniciose conseguenze del gigantismo, generati dal Mondiale di calcio e poi dalla coda delle Olimpiadi, sempre in Brasile nel 2016. Dodici stadi - troppi, Usa ’94 ne aveva 9 -, alcuni restaurati altri costruiti ex novo con investimento preventivato di un miliardo che, invece, si attesterà sui 3 miliardi di dollari. Il 97% dei costi sarà a carico dei contribuenti, ai quali poco importa di sapere che 8 su dodici di quegli impianti rimarranno di proprietà dei rispettivi stati. Qualcuno deve aver ragionato come il Fitzcarraldo di Werner Herzog che portò l’Opera lirica in Amazzonia, facendo suo il motto: «Solo chi sogna può spostare le montagne». Solo così si spiega la cattedrale nella foresta, lo stadio Amazonia di Manauas: gioiellino da 42mila posti, ma in una città in cui le squadre locali (dilettantistiche) alla domenica a malapena raccattano 3mila spettatori.Però, non è solo colpa degli stadi, ma di una strategia scellerata se le spese complessive di Brasile 2014 sono lievitate da 13 a 16,5 miliardi di dollari. Il Paese è tutto un cantiere, con tempi di consegna delle opere finite in netto ritardo. Il 68% dei lavori (autostrade, stazioni, aeroporti, linee metropolitane e infrastrutture varie) si concluderà, forse, entro i primi mesi del 2014, ma quasi il 20% verrà completato solo a ridosso del 12 giugno, giorno della partita inaugurale. La first lady Dilma Roussef, paladina del lulismo, continua a promettere 700mila nuovi posti di lavoro permanenti e tassi di crescita dell’economia che al termine della competizione calcistica porteranno il Brasile al secondo posto mondiale, dietro all’India. I tifosi, dopo la Confederations sognano il primo posto anche al Mondiale e il sesto titolo iridato, ma nel frattempo si indignano perché la realtà è preoccupante. Sacche pesanti di disoccupazione, quindi povertà dilagante ai margini delle metropoli. Il disagio sociale alimenta la violenza e la media dei delitti (molti per mano armate delle baby-gang delle favelas) solo a Rio de Janeiro è 4 volte superiore a quella degli Stati Uniti. Il governo, che predica quei principi del filosofo Auguste Comte stampati al centro della bandiera nazionale, “Ordem e Progresso” (Ordine come base e Progresso come obiettivo), risponde così con una task force dei tempi della dittatura militare, acquistando dalla Germania 34 carri armati Ghepard, i migliori semoventi di artiglieria antiaerea, già piazzati a guardia delle 12 città sedi dei Mondiali. Costo? Oltre 30 milioni di euro. Il tamburim che accompagna al ritmo di samba la torcida verdeoro nel tragitto dalla strada agli spalti, è diventato un tamburo di guerra della protesta civile. «La capitale Brasilia ha investito 350 milioni di euro per il nuovo stadio Nacional e intanto non versa un centesimo per gli ospedali e le scuole. E il diritto alla casa è stato messo in fuorigioco», denunciano da “Uman Rights”, l’agenzia dell’Onu. Mentre la gente piange e vive di continua saudade per un passato, recente, da poveri ma belli, al tavolo dei potenti si ride e si fanno altri conti. Minimizza come sempre l’astuto patron della Fifa Joseph Blatter: «L’esperienza mi insegna che poi quando la partita inizierà tutto andrà al suo posto». E gli fa eco il suo fido segretario Jerome Valcke: «A volte con meno democrazia è più facile organizzare un Mondiale… Probabilmente, nel 2018 nella Russia di Putin ci saranno meno problemi». Frasi sibilline che anche un uomo per tutte le stagioni come il leggendario Pelè sottoscrive e approva. Ecco come si spiega il detto popolare: «Se a un vecchio brasiliano parli di Pelè, quello si toglie il cappello, ma se gli parli di Garrincha il vecchio si scusa e si mette a piangere». Perché Garrincha è “l’alegria do povo”, la vera espressione del calcio di poesia a cui anela da sempre il Brasile che non dimentica un’altra storia. Quando la Seleçao vinse il Mondiale del ’58, il presidente della repubblica ricevette tutta la squadra e chiese ai giocatori se preferivano un premio in denaro o una macchina. Garrincha vedendo una grande voliera piena di uccelli disse: «Io Presidente, vorrei solo che apriste quella gabbia».