Non c’è propriamente una facciata, ma uno sbocciare di occhi quadrangolari che si rivolgono ognuno a una porzione diversa di panorama, come in un’espressione seriale di studiato strabismo. L’arte contemporanea ha esaltato l’irrazionalità come espressione di libertà: ma non è questo l’esercizio cui ci si trova di fronte a Langenlois, in Austria, dove l’americano Steven Holl, erede del razionalismo storico, ha progettato un hotel ammantato di alluminio fittamente forato. Le sporgenze variamente angolate disposte in modo apparentemente disordinato su pilastrini che li elevano sopra il piano della campagna costituiscono un richiamo visibile a qualcosa che visibile non è: una trama sotterranea di cunicoli scavati nella pietra in epoca basso medievale, coperti da volte vecchie di 900 anni in cui si alloggiavano le botti del vino prodotto nei vicini vigneti. E ancor oggi il nuovo edificio è indirizzato a favorire il turismo vinicolo: dispone di un centro per gli assaggi, il piano terra è un belvedere trasparente sulle vigne e dà acceso alle antiche cantine interrate. Nell’insieme, un luogo in cui la nuova cultura del vino, gestita attraverso incontri guidati da sommelier, si ricollega alle antiche tradizioni. «Ave color vini clari, ave sapor sine pari» intonava il medievale canto goliardico, ripreso dalle melodie di Juan Ponce nella corte di Ferdinando il Cattolico. Note scherzose, a volte irriverenti, comunque espressione di qualcosa che è profondamente radicato in tutta l’area mediterranea, dove da sempre lo si considera, se preso con misura, espressione di piacere gioioso e persino pozione curativa. Del resto quanto il vino accompagni una sana convivialità è ben testimoniato dal primo miracolo compiuto da Gesù in Cana.Se pochi decenni or sono menestrelli del nostro tempo quali Giorgio Gaber o Fabrizio De Andrè ne ravvisavano l’habitat nell’osteria dei quartieri bassi dove non di rado si scivolava nell’ubriacatura, oggi prevale il gusto del centellinare in una degustazione acculturata: sta sorgendo una nuova sensibilità verso l’atavica bevanda. E il termine "cantina" non si associa più al luogo umido e scuro, ma ad architetture sgargianti, a volte imponenti, comunque accoglienti che si innestano sul diffondersi dell’agriturismo ma assumono vita propria, divenendo luoghi in cui si manifesta la nuova identità delle campagne. Come l’hotel firmato da Holl, ora vi si trovano luoghi di incontro in cui ritirarsi allontanandosi dalla città per riconnettersi a una storia di pacata estetica, un "otium dorato" di cui il vino, alimento che ben riassume il lungo discorrere della civiltà, è un vettore. Nella principale regione vinicola spagnola, la Rioja, Jesús Marino Pascual ha progettato quattro monumentali cantine in pochi anni. La maggiore, Irius a Barbastro, dispone di una superficie coperta di quasi trentamila metri quadrati: quasi tre ettari costruiti, con spazi per la torchiatura dell’uva, l’affinamento, la maturazione del vino, la sua conservazione e naturalmente la degustazione e la distribuzione. E, al di là delle dimensioni, si tratta di un’architettura di grande impatto visivo, elevata in forme simili al cristallo presso un laghetto artificiale che abbraccia su due lati, prolungandosi in ampie gallerie dove si allineano botti e bottiglie. Molti archistar sono stati chiamati a segnare la campagna con questi nuovi castelli-ostelli in cui l’ospitalità è pervasa dagli aromi dei mosti. Il fantasioso Frank O. Gehry ha congegnato un insieme di cemento e lamiere a nastro caoticamente ondulato per un Hotel e "Wine Spa" in Elciego, nella regione riojana che per la Spagna è un po’ come la zona del Chianti in Italia. Mentre Santiago Calatrava, i cui progetti derivano da calcoli che ingegnerizzano le forme naturali, nella vicina Álava ha dato luogo a una serie regolare di seni e coseni che si dipartono simmetricamente da un culmine centrale. In un’altra regione, Zamora, a Toro gli architetti Xavier Martí Galí e Carlos Ferrater hanno generato una copertura geometrica su cui si eleva una trama regolare di diedri a triangolo aperti, di colore ocra come la terra: l’inserimento ambientale è sempre fondamentale di questi tempi e in queste zone. Anche Foster + Partners e Zaha Hadid hanno firmato vinerie spagnole: il primo formando una specie di collina artificiale a Ribera del Duero, la seconda disegnando una sala di degustazione a Haro, la Rioja. Nella Napa Valley in California le vinerie di grido sono tanto diffuse che tra queste si svolgono tour guidati. Qui Herzog & De Meuron, architetti svizzeri noti per le loro opere museali, hanno progettato una cantina i cui muri sono costituiti da gabbie metalliche riempite di pietre "a secco", prive di legante, così che l’aria circoli insinuandosi tra un sasso e l’altro. Né mancano in Italia simili vinerie d’autore: per citare solo qualcuno, vi si sono cimentati Mario Botta a Suvereto (Li) con un edificio impostato su un cilindro dalla copertura che scende obliqua attraversata da una scalinata; Piero Sartogo e Nathalie Grenon che a Martignano in Toscana hanno recentemente posto una leggera ala sorretta da colonne e slanciata in un’iperbole orizzontale (ma già anni addietro avevano realizzato un più tradizionale edificio a basse torrette circolari vicino a Siena); Renzo Piano, che ha pensato per Gavorrano (Gr) a un elemento svettante come un’antenna dotato di molteplici coperture in aggetto che richiama gli hotel prossimi al mare; lo studio Archicura che a Barolo ha nascosto una cantina sotto un prato elevato in morbide movenze e aperto in fenditure ospitali; Edoardo Milesi che a Collemassari ha anch’egli nascosto nello spessore di un colle gli ampi spazi della vineria, mostrando all’esterno solo una trama a quadrati che ricorda la regolarità dei filari. Non sono che pochi, tra i tantissimi esempi. Nel segno del vino, tranne rarissime eccezioni, si trovano architetture perlopiù contrassegnate dalla sobrietà e dalla misura. Siamo lontani dai riti dei baccanali, e vicini a un’estetica della ragione.