Agorà

La canzone si racconta / 6. Maria Monti, la donna che inventò i cantautori

Andrea Pedrinelli venerdì 12 agosto 2016
«Riappropriazione di buongusto, ironia e forse poesia da parte della canzone italiana». Così Nanni Ricordi, colui che lanciò via via Paoli, Tenco e Jannacci, definiva il cantautorato, fenomeno che nei primi anni Sessanta fece sbarcare la nostra canzone nella modernità consentendole di dare risposte vere alle rivoluzioni d’Oltralpe (Beatles, Brel, Brassens…) superando la canzone-melodramma di Nilla Pizzi e Claudio Villa. Protagonista di tale fenomeno fu Maria Monticelli detta Monti, classe ’35, milanese versatile dalle prime decisive ricerche nella musica popolare al canto satirico-politico, ma soprattutto prima “cantautore donna” in Italia: dopo i tentativi ante litteramdella napoletana Ria Rosa a inizio ’900. Maria Monti però non solo le canzoni se le scriveva e cantava con buongusto, ironia e (senza forse) poesia; addirittura si deve a lei lo stesso termine “cantautore”, come ricorda con garbo. «Si doveva fare una locandina con Vincenzo Micocci (altro grande discografico, ndr) per uno spettacolo con me, Endrigo e Gianni Meccia, e lui voleva un termine che definisse il nostro modo di far musica. Dalla mia bocca uscì “cantautore”: che non mi piacque, ma piacque a lui. Così finì sulla locandina e di lì designò tutti quanti noi. Anche se non mi piace neppure ora…». Per Maria Monti Umberto Eco parlò di «nuova poesia milanese« segnalando nelle sue canzoni vera adesione al reale; e di lei il ricercatore Roberto Leydi scrisse «la sua carriera si gioca senza snobismo su rischio personale e qualità delle scelte». Lei, Maria, come tutti i grandi invece si ritrae. Malgrado abbia scoperto La Balilla (dal suo portinaio), lanciato Gaber (per cui scrisse Benzina e cerini e con cui compose Non arrossire), collaborato con Dalla, Perigeo, Rino Gaetano, il jazzista Steve Lacy. Si ritrae malgrado il suo essere “avanti” con classe sin da Zitella chacha e Le canzoni del diavolo con Paolo Poli, e poi ancora coi Canti del No (fra cui un Trilussa musicato che anni dopo Baglioni riprese per la nota Ninna nanna nanna nin- na), un live con Dalla-Venditti-De Gregori del ’74, i capolavori I contrautori, Il bestiario, Oltre… Oltre…. E si ritrae pure malgrado molto bel cinema (da Leone a Bolognini), alta tv (Gregoretti e I promessi sposi) e il grande teatro (anche con Tognazzi e Bene) in cui si rifugiò dopo le censure a quella sua arte musicale libera e ironica, straniante e affilata, che negli anni ’60 proprio non si riusciva, da noi, a pensare adatta a una donna. Però quando Maria Monti insiste a ritrarsi dicendo pure «per molti criteri d’oggi io sono una perdente », be’, questo no, signora: per i criteri della vera arte lei non solo è una vincente, ma anche una che è giunta un po’ dovunque prima di molti altri (e molte altre).  A cosa si deve il fatto che pochi ricordino che lei scoprì La Balilla o il lavoro con Gaber? «Ero considerata una da non prendere troppo sul serio, ma anch’io a volte non davo importanza a certe cose perché mi premeva solo scrivere e cantare qualcosa che fosse bello, almeno a mio gusto. Con Giorgio, pensi, scrivemmo anche Goganga: nella baia del silenzio a Sestri Levante, divertendoci come matti. Ma non mi importava che il mio nome fosse tra gli autori in Siae, m’importa che ancora oggi mi cerchino persone come Ennio Morricone: con cui lavorai già allora». Quante difficoltà ebbe per il fatto di essere donna? «C’era ottusità, direi un vizio mentale, nei confronti delle donne. Ma le censure grosse le ebbi per i contenuti specie in Rai alla radio, dove mi rigavano i dischi (come a Jannacci, ndr) pur di non trasmetterli. Forse ho subito troppo anche qui ma mi interessava di più capire la mia anima: anche se farlo andava contro ogni convenienze di carriera. E forse solo negli Usa avrei potuto avere chances “da uomo”». Secondo lei ora c’è un nostro cantautorato femminile? «Sicuramente molto più che nel ’61: ma ancora non sento grandi differenze con la scrittura maschile». Un giovane quanto dovrebbe conoscere la tradizione? Lei fu tra i primi a indagare il cosiddetto “folk”… «A me venne naturale, ma penso dovrebbe esserlo per tutti: mi sembra un patrimonio meritevole, che evita pure di rimanere ancorati ai soliti successi. Una cultura da conoscere, diceva la grande Maria Carta». Anche se poi “folk” divenne un modo di etichettarla ignorando o sminuendo tutte le altre cose che faceva? «È una brutta bestia, il mercato: fa tante vittime. E la prima comunque è se stesso, se ignora troppe cose in modo imperdonabile autocondannandosi a perdere radici e identità. Eppure Bell’uselin del bosch piaceva dovunque, anche con arrangiamenti moderni». Fu per questo che lei passò a cinema e teatro? «Certo, arrivarono a definirmi “invendibile”: però ero pure contenta, di non frequentare più certi ambienti». C’era differenza fra la musica milanese degli anni Sessanta e quella che poi vide a Roma negli anni Settanta? «Molta: forse quella che passa fra lievità e denuncia esplicita. Certo Jannacci non poteva nascere a Roma né altri a Milano… Io comunque le amo entrambe». Si vedeva subito, la grandezza di Jannacci e Gaber? «Eccome. Enzo era due persone in una, il medico e il jazzista; Gaber era maturo, sensibile. Per Paoli non dovevo lasciarlo, sarei rimasta isolata e non aveva torto. Ma non eravamo fatti l’uno per l’altra. Lui era molto determinato, un giorno mi disse che ero una vera artista: ma lui avrebbe fatto strada. E così fu. Per molti appunto sono una perdente, ma non mi pento». Quali sono stati i più grandi cantautori della storia per lei che, suo malgrado, ha creato il loro nome? «De Gregori. Jannacci. Gaber, ovvio. Ma ricorderei anche i Cetra, Cocciante molto sottovalutato, Conte, Vasco, Dalla… E pensi, giorni fa ho risentito Peppino Di Capri che da giovane trovavo commerciale: non lo è. Di sentimenti sa scrivere e cantare molto bene». E delle sue canzoni, quali farebbe riascoltare? «Senz’altro L’armaturae I fili della luce m’han tagliati. La prima parla di chi capisce che conquista sia il liberarsi da ogni costrizione esterna; la seconda, scritta 20 anni fa, dice di uno che trovatosi senza lavoro perde luce, tv, gas, viveri… E si ritrova senza più contatti col mondo». Le recupererà? Ma lei a 81 anni scrive ancora canzoni? «Certo! È una necessità come lo fu all’inizio. E poi scrivere non dev’essere nient’altro».