Il teologo domenicano. Candiard: «Dialogo con l'islam, un'avventura nella verità»
L'islamologo domenicano, padre Adrien Candiard
Per dialogare con l’islam «non basta la buona volontà di sedersi a un tavolo». È un compito «difficile» quello di trovare «una lingua e un terreno comune razionale» che però «vale la pena tentare». Ne è convinto padre Adrien Candiard, teologo dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) a Il Cairo, istituzione che collabora con una delle più prestigiose università del mondo islamico, al-Azhar. Arrivato in Egitto dieci anni fa, Candiard confessa di sentirsi solo ora pronto a iniziare il lavoro. Quarant’anni, parigino, con un passato nella politica ad alti livelli (il padre è stato collaboratore di Lionel Jospin e François Mitterand, lui scriveva i discorsi per il candidato all’Eliseo Dominique Strauss-Kahn) il frate dell’ordine dei predicatori è impegnato da domani in un tour di presentazioni in giro per l’Italia del suo ultimo libro Tolleranza? Meglio il dialogo (Libreria editrice vaticana).
Come costruire un terreno comune ?
La nostra idea è di lavorare insieme sulla tradizione islamica. E capire perché non ci capiamo.
Ad esempio?
In una discussione un professore di al-Ahzar mi disse che il Corano non è un testo. Gli chiesi: allora che cos’è? Mi rispose: una luce sotto forma di versetti. Replicai che se ne volevamo dialogare era necessario che lui accettasse che per me il Corano è anche un testo. Come io accettavo che per lui fosse anche una luce sotto forma di versetti. La difficoltà, insomma, è di uscire ognuno dal linguaggio della propria tradizione.
L’islam ha difficoltà ad applicare al suo testo sacro la dimensione degli studi esegetici e filologici?
Una tradizione filologica c’è. Ma le sfide sono diverse. Ovviamente la teologia della Rivelazione è diversissima. Non direi, però che noi cattolici siamo aperti a tutto e loro chiusi. O che noi siamo riusciti in un lavoro che per loro è ancora tutto da fare. Le cose sono più complesse. Ascoltare l’altro significa anche andare oltre le precomprensioni molto forti su ciò che l’altro crede.
Nel suo libro lei mette in guardia dal mito della convivenza nell’Andalusia medievale da un lato e dalla tentazione della crociata dall’altro. Quale allora la via possibile?
Non bisogna essere ingenui. La possibilità di intenderci va costruita. È possibile o no? Non lo so. Ma non abbiamo scelta. L’alternativa è la guerra.
Lei rievoca la ricerca sulla verità di due filosofi, l’arabo Ibn Hazm (XI secolo) e il cristiano Raimondo Lullo nel XIII. Cosa dicono all’oggi?
Il dialogo interreligioso nel passato non era una preoccupazione così forte. Le questioni che noi affrontiamo sono nuove. Mentre i teologi medievali non si ponevano la domanda sulla salvezza degli altri, per noi la considerazione dell’altro è fondamentale.
Cosa vediamo allora nel Medioevo, in particolare nell’Andalusia?
Contrariamente al tentativo moderno di intendersi sacrificando la pretesa della verità, i contatti fruttuosi avvengono proprio nella ricerca della verità. Non una ricerca irenica, ma fatta di dispute, discussioni. Per me la lezione dell’Andalusia medievale è: se riusciamo insieme a parlare della nostra ricerca della verità, cioè dell’essenziale, allora non c’è posto per i conflitti identitari.
Oggi le società si basano su relativismo e multiculturalismo. È giusto l’approccio alle religioni dei vari tipi di istituzioni laiche: Francia, Usa, modello olandese?
Possiamo essere fedeli al progetto dell’Illuminismo, ripensandone però i mezzi. L’Illuminismo ha cercato di liberare l’uomo dalla religione, intesa come gabbia. Se vogliamo essere fedeli all’obiettivo, la liberazione, dobbiamo accettare che la religione fa parte della vita umana e che dunque le persone vanno liberate “con” la religione non “dalla” religione.
Cosa significa?
Dare a tutti i mezzi di capire la propria fede. Dobbiamo far entrare il pensiero religioso nelle università, in modo da discuterlo in maniera comune, razionale. Invece abbiamo fatto il contrario, abbiamo fatto uscire la religione dagli atenei. pensando che fosse una cosa privata.
Proprio all’università inizia l’egemonia islamica che nel romanzo distopico di Hollebecq, Sottomissione, arriva a tutta la Francia. Come giudica il timore di una colonizzazione?
La paura occidentale di un islam di conquista ha un corrispettivo in quella che, con buoni argomenti, hanno gli islamici rispetto all’Occidente. Se si va in Egitto a dire che c’è una volontà di conquista islamica, la risposta è: “Avete eserciti musulmani di invasione in Europa? No. Invece eserciti occidentali nel mondo arabo- islamico ci sono”. E a livello culturale: “In Italia andate a vedere film egiziani o vi vestite all’orientale? No. In Egitto invece andiamo a vedere l’ultimo Batman e metà della popolazione si veste all’occidentale”. Quindi chi distrugge la cultura di chi? Non dico che loro abbiano ragione. Ma la paura è condivisa. Siamo di fronte a due cittadelle che cercano di difendersi. E questa non è mai una buona soluzione.
Come se ne esce?
Con un lavoro intellettuale di comprensione reciproca. La paura va contrastata, perché ci impedisce di pensare.
Molti potrebbero obiettare che a giustificare paura e scetticismo verso il dialogo ci sono le violazioni dei diritti umani nei Paesi musulmani, pensiamo all’Iran in questi giorni. E le violenze perpetrate da regimi teocratici in mano a movimenti come i talebani.
Ovviamente non dico che bisogna dialogare con un taleban o con un terrorista. Non avrebbe senso. Però se non dialoghiamo con il resto del mondo islamico, che non è taleban e non è terrorista, allora lasciamo il terreno proprio ai violenti.
Ogni volta che avviene un fatto di terrorismo si invita l’islam laico o moderato a prenderne le distanze. Quali difficoltà ha questo islam non intollerante?
Già “islam moderato” non significa un granché. Vuol dire essere moderatamente musulmani? Così anche “islam laico” è una contraddizione. Spesso vogliamo musulmani che non siano musulmani e, secondo me, questa è una via senza uscita. Poi che non reagiscano ai fatti di terrorismo è un discorso che non tiene in conto la realtà. Perché quando le reazioni ci sono, ad esempio di al-Azhar, non le vediamo. Questo avviene perché non conosciamo le persone. Poi è vero qualche difficoltà teologica da parte islamica c’è.
Quale?
Come trovare il proprio posto nella modernità, che è pensata in Occidente. L’islam mainstream sicuramente fatica. Ma non per mancanza di volontà. La difficoltà è trovare la posizione giusta e questo richiede un lavoro teologico pesante. Spesso vorremmo una riforma dell’islam, ma questa va pensata, non c’è una riforma già pronta che basta applicare. È un processo lunghissimo. Il cristianesimo, che la modernità l’ha vista nascere in casa, ha avuto e tuttora ha difficoltà a trovarvi il proprio posto. Figuriamoci il mondo islamico che la percepisce come straniera, arrivata in modo coloniale. La sfida è ancora più grande, quindi ci troviamo di fronte a una crisi vera e propria. C’è una riforma modernista che si chiama Salafismo. Ma è un modo di affrontare la questione che alla fine è abbastanza violento e non ci piace per niente.
I pronunciamenti del Papa con esponenti islamici, come quello di Abu Dhabi, puntano sulla fratellanza umana. È un fattore per evitare le guerre?
Non abbiamo scelta, dobbiamo imparare a vivere insieme. Se guardiamo i fratelli nella Bibbia, ci sono scontri durissimi, addirittura omicidi. Ma quando un’amicizia finisce, il legame non c’è più, mentre essere fratelli è un dato di fatto. Dobbiamo imparare a cercare la verità insieme. Non è facile, ma è una bella avventura.