Nei
Canti orfici Dino Campana (Marradi, 1885 - Castelpulci, Scandicci, 1932) racconta il suo 'pellegrinaggio' alla Verna. Il poeta usa proprio quest’espressione, ma va intesa non nel senso classico, devozionale. Campana si considera pellegrino in tutte le località abbracciate dal suo sguardo, anche quella Pampa forse visitata durante il suo soggiorno in Argentina e cantata, in quel libro unico, sotto ogni punto di vista, a cui è legato il suo nome. Ma tornare su quella descrizione della Verna e soprattutto di san Francesco apre ad aspetti di Campana da prendere in esame. Francesco gli appare «come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano». La religiosità di Dino Campana è un tema da approfondire e da non banalizzare. È ricco di spunti anche in questa direzione quello che si potrebbe definire, per molti versi, il lavoro di una vita: il carteggio campaniano più completo (1903-1931) e altre testimonianze epistolari (1903-1998) che raccoglie per Polistampa, sotto il titolo di
Lettere di un povero diavolo le fatiche e la cura pluridecennali dedicate a Campana dallo scrittore argentino Gabriel Cacho Millet. Lavoro filologicamente accurato, da cui traspaiono passione e rigore, si compone di 221 documenti che si coniugano, in modo complementare agli altri testi di
Campana sperso per il mondo curato da Cacho Millet per Olschki. Dunque, la religiosità di Campana: «Quello che scrive Dino su San Francesco, che appare come ombra di Cristo, la sua rinuncia semplice e dolce è espressiva della visione di un laico, non di un credente. Campana, si sa, ha scritto un solo libro: i
Canti orfici. Un libro che è fondamentalmente un viaggio iniziatico ». In questo viaggio si inserisce la peregrinazione al santuario francescano de La Verna. È una tappa singolare del suo 'viaggio' per il mondo, che si conclude in un crescendo non più cristiano sulla Pampa argentina, «sulla terra infinitamente deserta e misteriosa» con l’apparizione dell’ «uomo libero che tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di nessun Dio». L’uomo libero non è più l’uomo nuovo del Vangelo e Dio, dopo aver letto Nietzsche, non c’è. In cielo ci sono soltanto «le stelle impassibili». Il Poeta sembra così non avere più quella fede che 'si tocca' nel componimento su La Verna. Ed è lì che il suo credo cristiano va principalmente cercato. È il diario della sua fede d’allora. «Poi andrà in cerca dell’assoluto nella poesia, giurando fede soltanto all’azzurro.» In una lettera del 1916, a Mario Novaro, tra gli aforismi proposti per la pubblicazione su una rivista, propone un giudizio affilato, ma tutto sommato ambivalente: «L’arte è espressione. Ciò farebbe supporre una realtà. L’Italia è come fu sempre: teologica». Allergico alla retorica nazionalista («D’Annunzio vate grammofono ») che invece attrae non pochi suoi compaesani, compreso l’arciprete «con voce di bue», Campana, che ha studiato dai salesiani, incontra tutti, si aggrega, talvolta si ritrova come in una gita compiuta nel gennaio 1912 sul Falterona, con due preti salesiani (i fratelli don Francesco e don Stefano Bosi), l’avvocato Mazzotti che sarà tra i fondatori del Partito popolare, un compagno di collegio, Diego Babini, e lo stravagante compositore Lamberto Caffarelli. Una costante nella ricostruzione biografica di Campana e dei suoi tratti caratteriali è l’influenza negativa della madre Francesca Luti detta Fanny, tale da determinarne la nevrastenia. Ma Cacho Millet non è di questo avviso: «Credo che si debba dire che erano i parenti da parte di padre ad avere debolezze mentali. Quando lo zio Mario, fratello minore del padre e frate, viene mandato via dal convento, rimane a casa dei Campana per un certo tempo. Questo zio non era un pervertito, come qualcuno ha scritto, ma un uomo alla ricerca dell’assoluto totale. Non voleva avere rapporti con gente che non credeva come lui, né avvicinarsi all’altare perché si sentiva peccatore ». In qualche modo può avere influenzato Dino «che era, allora, un bambino». Nella famiglia Campana c’erano religiosi consacrati: due cugini di Dino, suor Maria e il suo fratello, fra Gaetano, missionario in India per 14 anni. «Quando la cognata di questo frate si sposò - racconta Cacho Millet - la madre di Dino le donò un’immagine di bronzo di san Pietro dicendole: questo è il dono di una poveretta. Vorrei dire che con la madre di Campana si è veramente andati un po’ oltre. La vena di pazzia percorre il ramo paterno della famiglia, non la madre nella quale c’è una sorta di cattolicesimo popolare e un’ammirazione profonda, per l’appunto, verso san Francesco. Francesco come ombra di Cristo ricorda proprio l’immagine di Murillo che lei manderà a Sibilla Aleramo: San Francesco che abbraccia il Cristo. Per devozione al Santo la madre del Poeta diventerà terziaria francescana e prima di morire chiederà di essere sepolta con l’abito del 'Poverello' d’Assisi». La religiosità di Campana è un filone nuovo da studiare, possibilmente da comprendere nell’ambito di quella ricostruzione biografica e degli scritti che non conosce ancora una sistematizzazione compiuta. In questa direzione è andato il lavoro di Gabriel Cacho Millet, convinto che materiali campaniani siano ancora sparsi in giro, anzi «spersi». Cominiciano qua e là ad apparire anche frammenti spuri, pezzi di carta che Campana avrebbe usato nel manicomio di Castelpulci, negli ultimi anni della sua vita, come anche una lettera a Sibilla Aleramo completamente falsa. Vengono messi in vendita ma non sono autentici. Bisogna piuttosto esplorare gli archivi. Chissà, ad esempio, se è c’è qualche riferimento a Campana nelle carte - sempre che siano rimaste - del cardinale Federico Cattani Amadori, nato a Marradi nel 1856 e morto a Roma nel 1943. Sicuramente al cardinale non deve essere sfuggita la storia del suo concittadino. Oppure negli archivi dell’ordine delle suore di Castelpulci. Una di loro, tanti anni fa, fu intervistata e parlò di Campana come di un uomo buono e gentile che l’aiutava a fare le polpette in cucina. Ma sono decisivi documenti per passare dall’anedottica alla storiografia. © RIPRODUZIONE RISERVATA Dino Campana (secondo da destra) in una gita al Falterona nel 1912.