Agorà

Intervista. Parla Camilleri. Gli animali della mia infanzia e la Verità

Alessandro Zaccuri domenica 18 novembre 2018

«Il dubbio resta sempre». Potrebbe essere la sintesi dell’opera di Andrea Camilleri. Delle indagini del commissario Montalbano, delle fantasmagorie sulla storia di Vigata, delle divagazioni tra arte e letteratura che sembrano condurre sempre allo stesso punto: a chiedersi - a spiare, direbbe uno dei suoi personaggi - se possiamo fidarci di quello che pensiamo di sapere. Interrogativo legittimo per uno scrittore cresciuto all’ombra di Pirandello (Porto Empedocle, dove Camilleri è nato nel 1925, è la “Marina” di Agrigen-to), ma che questa volta si manifesta in un contesto abbastanza inatteso. I racconti raccolti in I tacchini non ringraziano (con i disegni originali di Paolo Canevari. Salani, Pagine 190, Euro 15,90, in libreria da domani) hanno per protagonisti animali di ogni specie, dai gatti innamorati ai maiali ubriaconi, passando per lepri astutissime e cardellini fedeli alle amicizie. «Molto spesso – spiega lo scrittore, che il 27 novembre sarà al Teatro Franco Parenti di Milano per un incontro con i lettori – siamo portati a ritenere che le scimmie siano più vicine a noi esseri umani, ma è il mondo animale, nella sua interezza, a rispecchiarci».

Da quando lo pensa?

«Da quand’ero ragazzino. Sa, nella campagna della mia infanzia era normale intrattenersi con una lucertola o prendere a mani nude un serpente, un biscione. Era un rapporto da pari a pari».

È per questo che nelle sue storie gli animali provano sentimenti simili ai nostri?

«Sono convinto che siano sentimenti elementari, che accomunano tutti gli esseri viventi. Certo, per noi umani la questione diventa più comples- sa, perché a differenziarci dagli animali interviene la parola, che è una spada a doppio taglio: ci dà la sensazione di esprimerci con chiarezza, ma nello stesso tempo apre la porta all’interpretazione. Il corpo, invece, comunica in maniera più diretta, univoca. Non credo, per esempio, che il cinguettio di un uccello lasci spazio all’ambiguità. Ma non posso esserne sicuro, si capisce. Il dubbio rimane, rimane sempre».

Qual è l’origine di questi racconti?

«Li scrivevo quando avevo voglia, quando mi veniva il desiderio di ricordare uno dei tanti animali che hanno popolato la mia esistenza. In casa ne abbiamo sempre avuti: cani, gatti, canarini, pappagalli. Le mie figlie sono cresciute in questa specie di zoo e sono felice che abbiano recepito questo amore. Anche da loro, adesso, gli animali non mancano mai. Più invecchiavo, invece, e meno me la sentivo di prendermi cura di altre creature. Era come se non ne avessi più il coraggio. E allora mi sono messo a raccontare le loro storie».

C’è un animale al quale è particolarmente affezionato?

«Durante l’infanzia la mia più grande amica è stata una capretta girgentana che mi aspettava in campagna, dai nonni, durante le vacanze. Ma c’è stata anche una gallina con la zampa di legno. Però, adesso che ci penso, non vorrei averle dato un’impressione sbagliata». In che senso? «Le ho detto che non tengo più animali, ed è vero. Ma quando vado nella mia casa di campagna, in Toscana, lascio sempre un po’ di cibo a disposizione dei randagi, che ormai sanno di trovare da me un buon ricovero. Non parlano, d’accordo, ma in un certo senso si passano la parola. A me fa piacere, perché mi tengono compagnia».

Come mai questi racconti non sono scritti nel suo siciliano?

«Nel mio vigatese, intende? Perché sono favole. Che si possono raccontare in dialetto con esiti meravigliosi, ne sono consapevole. Ma io non ci riuscivo, per quanto ci provassi. Probabilmente perché per me il dialetto è la lingua della realtà, mentre nelle favole il registro è più universale, meno soggetto ai cambiamenti che possono intervenire nel tempo».

A che cosa si riferisce?

«Al fatto che la lingua di cui mi servo per i romanzi è una costruzione che ho continuato a raffinare negli anni e che è quasi diventata indipendente dalle mie intenzioni di inventore. A volte mi capita di riprendere un libro che risale, mettiamo, a una decina di anni fa e mi viene da riscriverlo da cima a fondo. La considero una grande soddisfazione: è la conferma che sono riuscito a fare, almeno in parte, quello che mi ero prefisso».

Dipende anche dal fatto che ora lei detta i suoi testi anziché scriverli direttamente?

«Non ritengo che questa abitudine, dovuta alla perdita della vista, abbia influito sul mio stile. Qualche critico mi fa osservare che semmai la mia lingua è come ringiovanita. Sarà perché l’assistente a cui detto, Valentina Alferi, ha molti anni meno di me. Può essere che qualcosa della sua gioventù si trasmetta alla mia lingua».

Che cosa significa per lei essere uno scrittore civile?

«L’impegno, se così vogliamo definirlo, sta nella scrittura stessa, nell’onestà alla quale ci si deve attenere nel momento in cui si mette mano alla pagina. La dimensione civile scaturisce da qui e può assumere forme diverse: il tentativo di interpretare l’eterna complessità italiana nei romanzi storici, l’intervento sulla cronaca in alcuni articoli che mi sento di scrivere anzitutto più come cittadino che come romanziere».

L’estate scorsa lei ha impersonato l’indovino Tiresia al Teatro Greco di Siracusa. Lo ha fatto per intuire l’eternità, ha detto.

«A 93 anni è un pensiero inevitabile: ci si accorge che qualcosa si sta avvicinando e non si sa bene che cosa sia. A me piace chiamarla così, “eternità”. In teatro, a Siracusa, mi pare di averne davvero intuita l’essenza. Camminavo sulle stesse pietre calpestate da Eschilo, si rende conto? Questa è una forma possibile di eternità».

Qual è il suo rapporto col cristianesimo? «Sono stato e continuo a essere un lettore attentissimo dei Vangeli, che considero tra i libri più belli che siano mai stati scritti. E concordo con la celebre affermazione di Benedetto Croce: non possiamo non dirci cristiani, almeno per quanto riguarda la condivisione di alcuni valori fondamentali. Che poi si sia credenti o non credenti è un altro discorso. Ma quei valori sono assoluti, irrinunciabili».

Quali sono?

«Li riassumerei in un’unica parola: verità. “Io sono la via, la verità e la vita”, afferma Gesù di se stesso. Ma avrebbe anche potuto limitarsi alla verità, che comprende ogni altro valore ».

Su questo non ha dubbi?

«No, su questo no».