Inchiesta. Calcio giovanile, quanto ci costa il talento
La mancata qualificazione dell’Italia al Mondiale di Russia 2018 ha aperto un dibattito infinito sulle cause che hanno portato a un risultato così rovinoso per la storia del nostro calcio. Sotto i riflettori è finito il sistema di reclutamento e crescita dei giovani calciatori nei vivai. Sono stati fatti paragoni con le eccellenze rappresentate da altri sistemi in maggiore salute, come quello tedesco con i suoi centri federali. Un modello leggermente diverso era già stato adottato dalla Francia con centri nei quali le giovani promesse transalpine si allenavano sempre insieme, trasformando di fatto le Under nazionali in squadre di club. L’Inghilterra ha recentemente varato un metodo chiamato “Elite Player Performance Plan” che ha sollevato qualche polemica nei club più piccoli, ma ha permesso di allevare crescere una generazione promettente come dimostra il successo dell’Under 20 all’ultimo Mondiale dove i giovani inglesi hanno sconfitto proprio l’Italia in semifinale.
In questa comparazione con quello che succede all’estero spesso si dimentica una realtà del calcio giovanile italiano da ormai parecchi anni. Rispetto a 30-40 anni fa nel nostro Paese le famiglie devono pagare per far giocare i bambini a pallone. Un tempo era tutto gratis fatta eccezione per il compito assegnato (talvolta) ai genitori di lavare le divise da gioco a casa. Ma tutto il resto, compresa la dotazione di magliette, borse e tute (scarpe escluse) era garantito gratis dalla società. Adesso invece iscrivere un figlio a una scuola calcio oppure alla squadra del quartiere o dell’oratorio costa da 200 a 400 euro (a una società in media un ragazzo costa sui 280 euro all’anno). Senza dimenticare la grande diffusione di campus estivi a pagamento che spesso, scorrendo i depliant pubblicitari, sembrano una fabbrica di illusioni. Le società sono costrette a chiedere un contributo di iscrizione perché altrimenti faticherebbero a sopravvivere. Sono diminuiti i contributi pubblici e le sponsorizzazioni dei piccoli-medi imprenditori che aiutano a tenere in vita le realtà sportive di paese o quartiere.
Ma questo non ha fermato la crescita dei ragazzi che giocano a calcio in Italia. I tesserati al settore giovanile e scolastico della Figc sono passati da 603.931 della stagione 2008-09 a 673.555 dell’annata 2015-16 con un incremento del +11.5% in sette anni. Viene da pensare che la presenza di costi di iscrizione possa tenere lontano dal pallone - sport popolare per eccellenza - i figli delle famiglie meno agiate, con conseguente dispersione dei potenziali talenti più desiderosi di emergere in virtù della cosiddetta “fame” che esalta tante carriere di primo piano nel mondo dello sport. Ma non è vero nemmeno questo. Le società calcistiche, quando si rendono conto di certe difficoltà economiche, vanno incontro alle famiglie con dilazioni massime della rate di iscrizione. In alcuni casi entrano in scena anche istituzioni come la Caritas. E non è del tutto vero nemmeno il fatto che i bambini non giochino più per strada o all’oratorio. «I miei ragazzi mi fanno arrabbiare. Quando li vedo giocare al campetto dell’oratorio negli altri giorni della settimana, ci mettono più grinta che durante i miei allenamenti», dice un tecnico di settore giovanile. Il calcio italiano ha tentato da tempo alcune strade per migliorare la crescita dei ragazzi. Ad esempio, da almeno 10-15 anni, i più piccoli (Pulcini ed Esordienti) giocano cinque contro cinque o sette contro sette. Non più undici contro undici in campi enormi per un bimbo di 7-8 anni. È stata un’innovazione mutuata dall’estero, soprattutto dal Brasile, la patria del cinque contro cinque che aiuta i bambini a toccare più frequentemente il pallone durante le partite.
Ed è stata proprio la gestione di Carlo Tavecchio alla guida della Figc a seguire la strada dei Centri tecnici federali su tutto il territorio nazionale per tenere sotto osservazione i talenti migliori e farli allenare con istruttori Figc. Gli addetti ai lavori segnalano altri tipi di problemi. Ad esempio, il cortocircuito tra attività di scouting effettuata da società di Eccellenza o Serie D e costi di iscrizione: i genitori dei ragazzi selezionati da questi club faticano a digerire le panchine dei figli dopo aver pagato qualche centinaio di euro, peraltro dopo essere stati selezionati dagli stessi dirigenti. Questo può innescare un clima conflittuale intorno ai giovani. Molte critiche anche nei confronti dei corsi per ottenere il patentino di allenatore che favoriscono nettamente chi ha giocato a calcio con i punteggi di ingresso. Da un lato, sembra una corsia preferenziale logica. Dall’altro, rende più difficile la capillare presenza sul territorio di tecnici preparati con ricadute negative sulla professionalità di chi insegna ai giovani.
Questa è la situazione della base. Difficile capire se basta a spiegare cosa succede ai vertici della piramide. Anche qui c’è un dato interessante. Spesso si parla della percentuale di stranieri utilizzati in Serie A, pari al 58% secondo stime effettuate sul finire dello scorso campionato. Ma la quota è ancora più elevata per le squadre che giocano nelle coppe europee. Nell’ultimo turno di Champions ed Europa League (dal 31 ottobre al 2 novembre) le sei formazioni della nostra Serie A impegnate nelle due Coppe, tra titolari e subentranti hanno schierato appena 27 giocatori italiani su 84: il 32%. Probabilmente è qui che va trovata la chiave del problema: i nostri talenti faticano a migliorare perché giocano poco a livello internazionale con i club di vertice. Ormai il vero spartiacque è rappresentato dalla Champions. È lì che bisogna essere per diventare competitivi.